Radicalizzazione e carcere: i primi risultati di una ricerca europea

Sommario: 1. Caratteri e obiettivi del progetto.- 2. Il quadro giuridico.- 2.1. I diritti da implementare. – 2.2. Legislazione simbolico-reattiva. – 3. Prevenzione e trattamento della radicalizzazione: un binomio possibile. -.4. L’analisi psicologica:primi risultati nazionali. -5. Strategie vs. buoni risultati.

 

1.Caratteri e obiettivi del progetto.

 

SERENY (Strengthening approaches for the prevention of youth radicalisation in prison and probation settings) è un progetto biennale di ricerca cofinanziato dal Programma Giustizia dell’Unione Europea. Il team di ricerca interdisciplinare proveniente da Austria, Italia, Slovenia, Spagna, Albania, Francia e Belgio (1) sta sviluppando strumenti, linee guida e raccomandazioni per sostenere l’efficace attuazione di pratiche di prevenzione della radicalizzazione giovanile rispettose dei diritti umani dei giovani detenuti, in linea con gli standard internazionali e dell’UE. Gli obiettivi sono quelli di rafforzare gli approcci, in un quadro giuridico e psicologico, per la prevenzione della radicalizzazione giovanile nelle carceri e negli istituti di pena; di fornire dati quali-quantitativi sulla dimensione individuale e psicologica dei processi di radicalizzazione dei giovani; di migliorare le sinergie tra il mondo accademico e gli operatori del settore, le ONG che si occupano di diritti umani, gli amministratori penitenziari e gli attori chiave. L’analisi è diretta a comprendere e valutare la legislazione, gli approcci, i programmi di formazione, le pratiche e gli interventi esistenti in materia di prevenzione dell’estremismo violento e della radicalizzazione nei contesti carcerari e di libertà vigilata. Essa si concentra sui giovani adulti per valutare la coerenza e il rispetto delle disposizioni europee e internazionali in materia di diritti umani, e in particolare dei diritti dei giovani adulti; per identificare e condividere le migliori pratiche a sostegno dei principali stakeholder e degli attori locali; per affrontare le sfide della radicalizzazione in modo più specifico, fornendo indicazioni sull’adattamento delle raccomandazioni generali agli specifici contesti nazionali e locali. Oltre alla definizione di radicalizzazione, uno degli obiettivi principali del progetto, è quello di fornire indicazioni per la progettazione e l’attuazione di iniziative di prevenzione della radicalizzazione complete e basate su dati concreti, adattate ai contesti nazionali e conformi agli obblighi dell’UE e dei diritti umani internazionali, in particolare per quanto riguarda i giovani adulti vulnerabili e a rischio. La ricerca si propone: a) l’identificazione dei punti deboli e delle incoerenze tra le legislazioni nazionali volte a prevenire l’estremismo violento e la radicalizzazione giovanile e il quadro legislativo e la prassi giudiziaria dell’UE e del CdE in materia di diritti umani, in particolare con riferimento ai giovani adulti, considerati come individui con particolari esigenze di gestione e benessere; b) l’identificazione dei bisogni e delle lacune nel portafoglio di formazione del personale di prima linea che lavora nelle carceri e segue i ristretti nel corso delle misure alternative (in particolare gli agenti penitenziari, gli operatori penitenziari, gli educatori e gli psicologi che lavorano a stretto contatto con i detenuti) in termini di contenuti, formate metodologie volti a proteggere i diritti umani, nonché attraverso l’identificazione, il monitoraggio e la valutazione dei segnali e dei rischi di radicalizzazione; c) la creazione di una maggiore conoscenza di programmi e interventi efficaci di prevenzione della radicalizzazione che garantiscano l’adozione di un approccio ai diritti umani nel trattamento penitenziario dei giovani adulti detenuti; d) la creazione di un terreno di confronto e di scambio di buone pratiche a livello europeo tra i responsabili politici, gli addetti alla formazione e gli attori locali.

 

  1. Il quadro giuridico.

 

L’analisi della legislazione nazionale dei Paesi analizzati volta a prevenire l’estremismo violento e la radicalizzazione è stata realizzata in coerenza con il quadro legislativo dell’UE e del CoE relativo ai diritti umani, con riferimento specifico ai giovani adulti. A questi fini si è condotta una desk analysis delle fonti primarie, aperta ai database disponibili delle autorità legislative e giudiziarie; si sono raccolte opinioni di soggetti –anche attraverso  interviste semi-strutturate – con comprovata esperienza sul tema (ricercatori, operatori giudiziari) che hanno accettato di collaborare in vari modi e con diversi gradi di coinvolgimento. Si è poi proceduto alla contestualizzazione e ai controlli incrociati con le informazioni acquisite in precedenza (ad esempio, attraverso progetti di ricerca esistenti o passati sul campo). Un’importante verifica è stata condotta circa l’esistenza di fonti non primarie (come le circolari interne alle amministrazioni penitenziarie) e la verifica di forme di collaborazione degli attori istituzionali e dei funzionari pubblici che variano in modo significativo nei Paesi analizzati. Si è riscontrata la mutevolezza delle definizioni di “giovane adulto” ai fini del trattamento penitenziario (2) che non sempre e si allineano alle definizioni fornite dalla psicologia, che normalmente indica un periodo di sviluppo compreso tra i 18 e i 25 anni. (3) Tuttavia, tali differenze non hanno impedito la raccolta delle informazioni necessarie per l’elaborazione del rapporto finale. A livello giuridico si è riscontrata una sorta di intersezione dei diversi regimi di tutela dei diritti, riguardanti rispettivamente i detenuti e i giovani adulti (4), nonché una sovrapposizione con i regimi giuridici più ampi, relativi, tra l’altro, alle disposizioni antiterrorismo, alla cooperazione in materia penale e giudiziaria, nonché alle politiche pubbliche in materia di welfare, integrazione culturale e inclusione sociale. In altre parole, l’equilibrio complesso fra tutela dei diritti umani del detenuto e obblighi legali di protezione contro gli atti terroristici, vede una particolare enfatizzazione della prevenzione del terrorismo e dell’estremismo violento. Allo stesso tempo è emersa la natura non vincolante delle fonti provenienti spesso da istituzioni che non hanno una chiara competenza a regolamentare direttamente la materia. Si registra infatti una varietà di strumenti di soft law di diversa natura, origine e autorità normativa, che assumono la forma di raccomandazioni, linee guida, commenti generali e manuali a fini interni. Ciò è fonte di incertezza giuridica quando si tratta di obblighi legali effettivi per gli Stati, nonché della tracciatura differenziale con le semplici best practices.Le cause di incertezza giuridica nel quadro dei diritti umani in materia di prevenzione della radicalizzazione in carcere sono determinate da una stratificazione di fonti che mostrano come la prevenzione della radicalizzazione è ancora spesso legata all’antiterrorismo e, più in generale, a visioni improntate law and order, ad approcci punitivi cui corrisponde una considerazione limitata e, in ogni caso, a posteriori dei diritti umani (dei giovani adulti). In altre parole, la prevenzione della radicalizzazione è spesso equiparata alla prevenzione del crimine in quanto tale, anche nel diritto internazionale ed europeo.(5) È emerso un approccio più ampio – soprattutto negli strumenti non vincolanti – che collega la prevenzione della radicalizzazione a politiche sociali distinte. In questo contesto, i minori e i giovani adulti sono stati individuati come i soggetti più vulnerabili rispetto alla radicalizzazione. (6) Ad esempio, si riconosce che il loro trattamento – sia all’interno che all’esterno delle carceri – richiede regole specifiche e una formazione specializzata del personale carcerario ed educativo. Oltre alle caratteristiche di umanità del trattamento si registra l’esigenza più forte,  contenuta Dichiarazione di Venezia (7) di accentuare il ricorso alla giustizia riparativa, alla diversione dai procedimenti giudiziari e alle misure non detentive. Dovrebbero inoltre essere adottate misure preventive per affrontare i fattori sociali e le cause profonde del fenomeno radicalizzazione, nonché perseguite misure di riabilitazione e reintegrazione, anche nell’attuazione delle risoluzioni del Consiglio di sicurezza relative all’antiterrorismo.

 

2.1. Diritti da implementare.

 

Elementi critici rispetto a una strategia efficace di prevenzione della radicalizzazione in carcere – soprattutto riguardo a soggetti particolarmente vulnerabili come i giovani adulti- emergono riguardo all’individualizzazione del trattamento penitenziario; al monitoraggio specifico e alla valutazione del rischio; all’affollamento delle strutture di detenzione; alla professionalizzazione del personale sia per quanto riguarda il personale di custodia che per quello educativo; ai programmi di reintegrazione e riabilitazione. Si è notato come classificazione, monitoraggio e trattamento specifici dei detenuti siano  basati su elementi considerati indicatori di (rischio di) radicalizzazione. Le amministrazioni penitenziarie e i dipartimenti di sicurezza spesso adottano tali misure con ampia discrezionalità e sulla base di fonti e linee guida interne relativamente poco trasparenti. Si tratta di misure capaci di  incidere significativamente sui diritti dei detenuti riconosciuti dagli strumenti giuridici internazionali ed europei, in particolare sui diritti e le libertà relativi, tra l’altro, ai trattamenti inumani e degradanti, ai principi di legalità, all’accesso alla giustizia, alla tutela delle relazioni familiari, alla libertà religiosa. Oltre ai diritti specifici dei detenuti (8), è molto importante l’assicurazione dell’effettività dei diritti umani, come chiarito in particolare dalla Corte europea dei diritti dell’uomo nella giurisprudenza relativa all’art. 13 della CEDU. Questo principio vincola i governi e le giurisdizioni a superare le apparenze, e a guardare alla realtà di una situazione, e non semplicemente alsuo dato formale esteriore. In base a tale principio, i diritti CEDU dovrebbe essere interpretatiin chiave di concretezza ed effettività, non potendo semplicemente risultare teorici e illusori (9). Una questione importante riguarda le previsioni relative a standard di monitoraggio più elevati per i ristretti a rischio di radicalizzazione. La Corte europea dei diritti dell’uomo ha affermato che, mentre le ragioni di sicurezza possono legittimare la sorveglianza delle comunicazioni nelle aree di visita, la sorveglianza sistematica e la registrazione delle comunicazioni per altri motivi interferiscono con i diritti sanciti dall’art. 8 della CEDU.  In questo contesto, i giudici di Strasburgo hanno sottolineato il requisito della legittimità, nonché la chiarezza e la prevedibilità delle previsioni in materia. Il diritto alla vita privata e alla conservazione dei legami familiari è stato bilanciato dalla Corte europea dei diritti dell’uomo con le esigenze di sicurezza che impongono di recidere i legami tra i detenuti e il loro contesto criminale. Nel contesto del terrorismo, la Corte ha “tollerato” scelte politiche volte a tagliare i legami tra i detenuti interessati e il loro ambiente criminale originario per ridurre al minimo il rischio che mantengano contatti con organizzazioni terroristiche. Tuttavia, i giudici di Strasburgo richiedono costantemente agli Stati l’adozione di garanzie adeguate per proteggere il detenuto da abusi, consentendo il contatto con familiari e amici. È parte essenziale del diritto dei detenuti al rispetto della vita familiare che le autorità carcerarie li aiutino a mantenere i contatti con i loro familiari più stretti. Il mantenimento dei legami familiari è un mezzo essenziale per favorire il reinserimento e la risocializzazione. Per quanto riguarda il collocamento e i trasferimenti collettivi, il trasferimento dei detenuti da una struttura all’altra può essere giustificato da problemi di sicurezza. Tuttavia, trasferimenti multipli e ingiustificati di detenuti possono essere problematici ai sensi dell’art. 3 della CEDU (divieto di trasferimento di detenuti da una struttura all’altra). Secondo la Corte europea dei diritti dell’uomo, la detenzione di un individuo in un carcere lontano dalla famiglia che rende le visite molto difficili o addirittura impossibili può interferire con la vita familiare ai sensi dell’art. 8 CEDU. Considerazioni cruciali attengono alla necessità di prevedere garanzie adeguate per proteggere il detenuto interessato da abusi e verificare in concreto le misure adottate dalle autorità al fine di  garantire i contatti tra il detenuto e la sua famiglia e i suoi amici. Mentre il trasferimento dei detenuti da una struttura all’altra può essere giustificato da problemi di sicurezza, i trasferimenti multipli ingiustificati di detenuti possono risultare violativi dell’art. 3 CEDU. Anche la detenzione in una struttura carceraria di massima sicurezza, sia in custodia cautelare che a seguito di una condanna penale, genera contrasti con l’art. 3 CEDU. Benché sia possibile in base a considerazioni di ordine pubblico introdurre regimi carcerari di massima sicurezza per particolari categorie di detenuti, basati sulla necessaria separazione di tali detenuti dalla comunità carceraria e su controlli di sicurezza più severi, l’art. 3 CEDU impone che lo Stato garantisca che una persona sia detenuta in condizioni compatibili con la dignità umana e che le modalità e il metodo di esecuzione della misura non la sottopongano ad angoscia o difficoltà di intensità superiore al livello inevitabile di sofferenza inerente alla detenzione. In sintesi, sottoporre un detenuto a un regime speciale di alta sicurezza non costituisce, di per sé, una violazione della CEDU,ma, per essere compatibile con i requisiti di tale disposizione, il regime deve essere applicato in conformità con la legge, perseguire uno scopo legittimo e, inoltre, essere giustificato come necessario in una società democratica. Nel contesto del requisito di conformità alla legge, la Corte europea dei diritti dell’uomo ha sottolineato, in particolare, la necessità di garantire la protezione dagli abusi e l’effettiva partecipazione dei detenuti ai procedimenti relativi al collocamento nel regime speciale, compresa l’efficacia delle procedure di revisione. Le Regole penitenziarie europee (EPR), elaborate e ulteriormente modificate dal Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa, costituiscono un altro elemento centrale nell’analisi condotta. Esse prevedono che qualsiasi restrizione o sorveglianza delle comunicazioni e delle visite, necessaria per le indagini penali, il mantenimento dell’ordine, la sicurezza e la prevenzione del crimine, e la protezione delle vittime del crimine – comprese le disposizioni dell’autorità giudiziaria – debba comunque garantire un contatto minimo accettabile. Raccomandano inoltre che le misure di sicurezza applicate ai singoli detenuti siano ispirate al parametro del minimo sacrificio necessario per garantire la loro custodia e che il livello di sicurezza sia rivalutato regolarmente durante la detenzione. Allo stesso tempo, l’adozione di misure speciali di alta sicurezza e protezione è consentita solo in casi eccezionali. Devono essere stabilite procedure chiare da applicare quando tali misure vengono utilizzate nei confronti di tutti i detenuti. La natura di tali misure, la loro durata e i motivi del loro utilizzo devono essere determinati dalla legislazione nazionale. Le misure devono essere applicate a singoli detenuti e non a gruppi di detenuti. È importante sottolineare che ogni detenuto sottoposto a tali misure ha il diritto di presentare un reclamo.

 

2.2. Legislazione simbolico-reattiva.

 

Dalla legislazione dei vari Paesi emergono alcuni tratti generali sulla prevenzione della radicalizzazione in carcere che sfociano in modelli comuni, dal carattere “reattivo”, in una considerazione privilegiata della radicalizzazione jihadista, rispetto alla quale tuttora difetta una definizione giuridica di “radicalizzazione”. In molti dei Paesi presi in esame i quadri normativi di riferimento sostanziali sono basati prevalentemente su istruzioni, circolari e altri strumenti simili. Si denota pure l’assenza generale di misure specifiche per i giovani adulti, nonché di strategie decentrate di inclusione sociale e programmi di formazione. L’analisi giuridica conferma misure introdotte, sviluppate e perfezionate principalmente come reazione alle più recenti e ricorrenti ondate di attacchi terroristici in Europa, spesso – ma non sempre – organizzati da organizzazioni jihadiste. Non sorprende che un Paese come la Slovenia, caratterizzato da una percepita assenza di gravi minacce alla sicurezza negli ultimi anni, sia stato uno degli ultimi Paesi dell’UE a predisporre un documento strategico di sistema che definisse il contenimento deliberato del terrorismo e dell’estremismo violento. Il carattere prevalentemente “reattivo”, di contrasto dei fenomeni, ha influenzato profondamente l’approccio generale dei regolatori nazionali, con effetti duraturi sulle strategie attuate. Uno di questi effetti è l’approccio generale alla prevenzione del crimine, per cui le strategie di prevenzione della radicalizzazione sono spesso equiparate alla prevenzione del crimine tout court, sia all’interno che all’esterno delle carceri. In Paesi come la Germania, la Spagna e l’Italia, questo approccio iniziale è stato rafforzato anche da strategie derivanti dalle pregresse esperienze riguardanti il terrorismo politico e le organizzazioni mafiose. Questo approccio è fonte di preoccupazione, in quanto implica che le considerazioni relative ai diritti umani sono spesso prese in considerazione solo dopo che le normative e le strategie pertinenti sono state progettate e implementate, piuttosto che costruite e incorporate fin dalle fasi iniziali nelle medesime. Ciò – va notato – è dovuto non solo ai regolatori nazionali, ma anche al modo in cui il diritto internazionale ed europeo si è sviluppato negli ultimi decenni, con obblighi potenzialmente contrastanti tra i regimi giuridici relativi all’antiterrorismo e ai diritti umani, nonché alla relativa incertezza giuridica che si è di cui si è detto. Un secondo elemento comune è rappresentato dall’attenzione alla radicalizzazione legata all’ideologia jihadista (10). Sebbene la radicalizzazione sia un processo che può potenzialmente avvenire all’interno di una varietà di spettri ideologici e comportamentali, i legislatori e le amministrazioni penitenziarie si concentrano per lo più sulla radicalizzazione islamista. Queste misure possono risultare violative dei diritti umani, soprattutto per quanto riguarda le libertà religiose e il trattamento non discriminatorio dei detenuti.

 

  1. Prevenzione e trattamento della radicalizzazione: un binomio possibile?

 

In esito all’analisi è emersa l’assenza di una definizione condivisa di “radicalizzazione” negli strumenti giuridicamente vincolanti (11).  Più comunemente, la “radicalizzazione” è definita in documenti politici, manuali governativi, linee guida interne e, talvolta, a livello  giurisprudenziale. Mentre le definizioni di radicalizzazione nella letteratura delle scienze sociali e della psicologia abbondano e sono ormai relativamente consolidate (12), questa assenza di una definizione legale può contribuire a una mancanza di punti di riferimento solidi quando si tratta di applicare regimi legali e penitenziari diversi. Questo, a sua volta, può incidere significativamente sui diritti umani dei detenuti, in particolare su quelli riguardanti la certezza, la non arbitrarietà e la prevedibilità del trattamento. In relazione a ciò, nella maggior parte dei Paesi analizzati, le strategie penitenziarie relative alla prevenzione della radicalizzazione sono incentrate su fonti di rango inferiore, misure amministrative, circolari interne, istruzioni e altri strumenti simili. In genere, la legislazione primaria si limita a stabilire le regole organizzative e procedurali generali, ma non regolamenta in dettaglio le possibilità e i limiti sostanziali delle misure di prevenzione della radicalizzazione. Gli strumenti che regolano le pratiche penitenziarie concrete hanno uno status giuridico ed effetti incerti e spesso non sono accessibili al pubblico. Questa opacità dei regimi normativi pertinenti potrebbe da un canto aprire a un’ampia gamma di abusi dei diritti umani, soprattutto perché amplifica la potenziale discrezionalità e arbitrarietà delle amministrazioni penitenziarie già ispirate da approcci di prevenzione del crimine; dall’altro, rivelarsi funzionale rispetto a una maggiore personalizzazione del trattamento e al suo attagliarsi a fenomeni di radicalizzazione mutevoli e cangianti. Un altro elemento ricorrente è l’assenza di normative e trattamenti specificamente dedicati alla categoria dei giovani adulti. Considerando che tale fascia demografica è particolarmente vulnerabile e presenta specifiche caratteristiche psicosociali (13), la generale mancanza di pratiche consolidate e specificamente rivolte alla prevenzione della loro radicalizzazione apre potenzialmente a violazioni dei diritti umani. In altre parole, i “radar” delle amministrazioni penitenziarie spesso non riescono a cogliere le specificità e a gestire adeguatamente individui che, pur non essendo del tutto equivalenti ai minori, ne condividono molte delle vulnerabilità, soprattutto quando si tratta di esposizione al proselitismo in carcere. Un ultimo elemento riguarda le strategie di prevenzione della radicalizzazione relative alla riabilitazione e all’inclusione socio-economica dei detenuti. Nella maggior parte dei casi, i programmi di formazione per il personale carcerario e di polizia specificamente finalizzati alla prevenzione della radicalizzazione sono stabiliti e sviluppati nell’ambito di organizzazioni e reti esterne e spesso sono relativamente estemporanei. Questo vale anche per iniziative ben note e di relativo successo come la Rete di sensibilizzazione alla radicalizzazione (RAN) (14), a cui partecipa la maggior parte dei Paesi analizzati. I programmi di formazione appropriati non sono dunque necessariamente integrati e stabilizzati nelle strutture organizzative interne dei sistemi penitenziari. Allo stesso modo, la maggior parte dei Paesi analizzati sembra in qualche modo esternalizzare le strategie di riabilitazione e inclusione sociale, affidandosi anche a interlocuzioni con la società civile e alle organizzazioni del terzo settore. A questo proposito, si assiste a una sorta di “divisione del lavoro”. Da un lato, le strategie di prevenzione del crimine, ancora oggi preoccupazione primaria delle amministrazioni pubbliche (penitenziarie e di polizia); dall’altro, le strategie di inclusione sociale, per lo più lasciate a collaborazioni (spesso estemporanee) con attori esterni e privati. Il coinvolgimento della società civile e delle realtà esterne al carcere appare essenziale in qualsiasi strategia di prevenzione della radicalizzazione e, più in generale, di riabilitazione dei detenuti. Tuttavia, il fatto che tali strategie e programmi di formazione siano in qualche modo decentrati contribuisce al rischio di perdere di vista l’obiettivo generale e quindi apre la possibilità di ulteriori violazioni dei diritti umani. In questo contesto, è significativo notare che quando si tratta di detenuti radicalizzati o a rischio, le misure di giustizia riparativa, volte a superare il conflitto tra gli autori dei crimini e le loro vittime e famiglie, siano difficilmente attuate, anche quando sono legalmente disponibili e applicabili, e nonostante le raccomandazioni degli organismi internazionali per i diritti umani (15). Soprattutto alla luce del principio di effettività ricordato in precedenza, è importante sottolineare che la coerenza dei regolamenti e delle misure pertinenti con gli standard dei diritti umani dipende in larga misura dalle condizioni effettive della loro attuazione. Regole e misure che sulla carta non violano gli standard dei diritti umani potrebbero essere problematiche nella pratica. Ciò potrebbe dipendere, ad esempio: dal fatto che le carceri siano dotate di personale adeguato e che il personale –sia di custodia che educativo –- sia formato per attuarle correttamente; dalle condizioni generali delle strutture di detenzione; dal (sovra)affollamento, ecc. Tali condizioni possono risultare violative dei diritti umani in quanto tali. Tuttavia, diventano ancora più problematiche quando si tratta di individui vulnerabili come i giovani adulti e di misure penitenziarie specifiche legate alla prevenzione della radicalizzazione. In altre parole, le condizioni effettive di un determinato sistema penitenziario possono dare origine a tipi di violazioni dei diritti umani distinti, ma che pregiudicano il quadro generale delle garanzie. Dal punto di vista dei diritti umani, la prevenzione della radicalizzazione dei giovani adulti in carcere non può essere osservata come un’”isola” normativa, al di fuori dalle condizioni generali del sistema e del trattamento penitenziario. Deve invece essere valutata come parte integrante del medesimo. In questo senso è difficile compiere una valutazione globale e completa, che vada al di là di un’analisi caso per caso ed è allo stesso tempo importante sottolineare che molti dei modelli sopra evidenziati sono spesso condivisi solo in parte da ciascuno dei Paesi analizzati. In alcuni casi, la prevenzione della radicalizzazione è una questione regolata almeno in parte a livello regionale, ad esempio in Belgio e in Spagna. Inoltre, in molti casi, questi modelli si evolvono lentamente o lasciano spazio ad approcci diversi. Le strategie incentrate sulla prevenzione del crimine e gestite da personale anticrimine vengono rivisitate e rese parte di strategie più ampie ed equilibrate, progettate per l’inclusione sociale e non gestite da personale anticrimine (soprattutto in Francia, Germania e, in Spagna, in Catalogna). In alcuni casi, i programmi di formazione sono resi strutturali all’interno dell’amministrazione penitenziaria e non lasciati a iniziative e reti esterne (si veda soprattutto la Francia). Emerge anche l’esigenza di sistematizzazione delle norme relative alla prevenzione della radicalizzazione in strumenti di legislazione primaria, in modo da aumentare così la coerenza complessiva, la legittimità e la certezza giuridica delle misure pertinenti (Italia). A ciò deve notarsi si oppone la consapevolezza criminologica della estrema mutabilità del fenomeno radicalizzazione e dei suoi tratti caratteristici che si presentano in continua evoluzione e richiede una regolamentazione modulare. Se ci si concentra sulle misure adottate in carcere, gli otto Paesi analizzati mostrano una relativa omogeneità nei sistemi di prevenzione della radicalizzazione. La maggior parte di essi si ispira o si è ispirata a un modello relativamente standardizzato, in cui la radicalizzazione viene inquadrata come uno spettro caratterizzato da fasi progressive e sempre più estreme di un processo (non necessariamente lineare) verso ideologie estremiste e – potenzialmente –verso crimini violenti.

Ognuna di queste fasi enuclea un diverso livello di rischio e, potenzialmente, origina misure mirate e variamente afflittive, che riguardano tra l’altro:

  • raccolta, monitoraggio e classificazione dei dati
  • interazione con gli altri detenuti in carcere e con il mondo esterno, comprese le famiglie
  • condizioni di collocamento in carcere
  • trasferimento in istituzioni diverse
  • accesso al trattamento non detentivo

Questo modello è intrinsecamente legato all’approccio prevalentemente ispirato dalla prevenzione del crimine. La valutazione del rischio e le relative misure sono dirette principalmente a prevenire la commissione di un reato. Le considerazioni sul rispetto dei diritti umani dei ristretti entrano in gioco solo successivamente. Questo modello si basa necessariamente su una serie di “indicatori” di radicalizzazione relativamente tipizzati che devono essere raccolti, monitorati e analizzati dal personale carcerario, spesso in collaborazione con i dipartimenti di polizia e i servizi di intelligence nazionali. Sebbene strumenti di governo come circolari e istruzioni interne non facciano sempre riferimento esplicito al jihadismo, tali indicatori si sono concentrati negli ultimi anni in modo sproporzionato sui comportamenti legati alla religione islamica.Inoltre, gli elementi utilizzati dal personale penitenziario e di polizia come indicatori di radicalizzazione non sono sempre resi noti in modo esaustivo e spesso non hanno una solida base scientifica. Infine, le misure adottate sulla base dell’analisi di tali indicatori sono potenzialmente in grado di incidere sull’effettivo trattamento penitenziario, al punto da poter essere facilmente qualificate come pene distinte, applicate oltre a quelle inflitte in seguito alla commissione di un reato. Essendo però generalmente qualificate come misure organizzative e di gestione del carcere, cioè come parte dell’amministrazione interna del sistema penitenziario, soffrono spesso la difficoltà di realizzazione di un controllo davanti all’autorità giudiziaria. Anche quando realizzato, il controllo è solitamente limitato a questioni procedurali piuttosto che sostanziali relative agli elementi utilizzati per adottare una certa misura, alla giustificazione fondata della stessa misura o all’adozione della misura in base a  pregiudizi anti-Islam.In sintesi, e in generale, la prevenzione della radicalizzazione in carcere è ancora oggi concepita principalmente come una questione di sicurezza (nazionale). Il detenuto sospettato di essere radicalizzato è per lo più trattato come un potenziale criminale piuttosto che come un individuo con un maggior grado di vulnerabilità, considerando peraltro che le misure sopra menzionate possono ulteriormente isolare o ritardare la riabilitazione sociale del detenuto, soprattutto se si stratta di giovani adulti.

È importante notare che l’approccio di prevenzione del crimine non implica violazioni dei diritti umani, laddove il monitoraggio, la raccolta dei dati e il trattamento più invasivi, così come le decisioni relative alla collocazione e ai trasferimenti legittimi, necessari e proporzionati.Tuttavia, per essere compatibile con gli standard dei diritti umani, l’approccio alla prevenzione del crimine richiede condizioni ideali che sono estremamente difficili da rinvenire nella realtà concreta dei sistemi penitenziari, sia nei Paesi ad alto reddito che in quelli a basso reddito. Questo modello, infatti, richiede condizioni ideali per quanto riguarda, ad esempio, un’adeguata dotazione di personale e una formazione non occasionale del personale penitenziario, degli psicologi e dei mediatori culturali, al fine di individualizzare in modo appropriato le misure e adattarle alle specifiche vulnerabilità dei detenuti – soprattutto dei giovani adulti – e valutare i dati raccolti in modo non discriminatorio e non parziale.A questo proposito, è particolarmente importante sottolineare che i dati accessibili sui finanziamenti e sui bilanci dei sistemi penitenziari dei Paesi analizzati e dei loro capitoli specifici non consentono di comprendere in modo esaustivo le risorse effettivamente destinate alla prevenzione della radicalizzazione in carcere, siano esse rivolte ai giovani adulti o ad altri gruppi. Quando disponibili, tali dati si riferiscono piuttosto al sistema penitenziario nel suo complesso o a programmi specifici di prevenzione della radicalizzazione. In ogni caso, emergono problemi di sottofinanziamento e, più in generale, non è chiarito l’effettivo impegno finanziario dei governi nazionali nella prevenzione della radicalizzazione. Ad esempio, le risorse destinate all’intelligence nelle carceri sono spesso considerate scarse. Allo stesso modo, altre critiche riguardano il fatto che ampie quote del bilancio privilegino l’assunzione di personale di intelligence e sicurezza piuttosto che realizzare nuovi investimenti immobiliari. Questo atteggiamento ignora anche le numerose ricerche secondo cui l’aumento della sicurezza è, al contrario, un fattore di aumento delle tensioni in carcere. Inoltre, è in contrasto con le raccomandazioni del CoE, che da vent’anni promuove un approccio alla sicurezza cosiddetto “dinamico”, basato in particolare sulle relazioni piuttosto che sul rafforzamento delle misure coercitive (16). In questo contesto, per migliorare la coerenza dei sistemi con le norme pertinenti in materia di diritti umani, si potrebbero perseguire due strategie distinte che non si escludono a vicenda: 1) mitigare i rischi per i diritti umani intrinsecamente associati ai modelli esistenti; 2)orientarsi verso modelli alternativi incentrati sulla vulnerabilità e su misure di giustizia riparativa.

 

  1. L’analisi psicologica: primi risultati nazionali.

 

I ricercatori di Psicologia (Università di Palermo, Università di Bari, Università della Basilicata) che si sono occupati di esplorare le componenti psicologiche e sociali che possono giocare un ruolo determinante nel favorire lo sviluppo di comportamenti radicalizzati in giovani adulti, hanno già formulato un primo gruppo di conclusioni alla luce di una vasta rassegna della letteratura internazionale sull’argomento in questione. La rassegna ha confermato diverse difficoltà metodologiche, quali (a) la mancanza di un accordo univoco sulla definizione e sulla valutazione del fenomeno della radicalizzazione; (b) la difficoltà a enucleare indicatori uniformi di deradicalizzazione; (c) l’assenza di prove empiriche rigorose in merito all’efficacia delle azioni contro la radicalizzazione condotte nelle carceri. Ciò rende particolarmente difficile il confronto fra programmi di intervento per stabilire quale di essi funzioni, ma non impedisce di offrire suggerimenti per la ricerca futura e implicazioni pratiche per politici, direttori degli istituti di pena e operatori di settore (17). Muovendo dai limiti degli studi sinora condotti, è emerso che gli effetti dei programmi di intervento sono riscontrabili soprattutto a livello individuale, mentre manca una visione “gruppale”. Questo potrebbe ostacolare la possibilità di capire se un intervento possa essere utile a una popolazione più ampia di detenuti e autori di reati. Pertanto, gli studi futuri dovrebbero concentrarsi su questa dimensione e includere valutazioni “di gruppo”, tali da fornire dati più generalizzabili. Solo pochi studi hanno inoltre utilizzato chiaramente metodi longitudinali, follow-up e confronti, auspicabili anche essi nel futuro. Tali tecniche consentono di accertare meglio il nesso di causalità rispetto alla radicalizzazione e di comprendere come i cambiamenti cognitivi e comportamentali negli individui radicalizzati dipendano dall’intervento specifico. Salve rare eccezioni, gli studi analizzati non hanno riportato le “variabili di mediazione” che potrebbero spiegare la desistenza dei beneficiari da ideologie e gruppi estremi o i “fattori di moderazione” che condizionano il successo di un programma. Poiché queste variabili potrebbero far luce sui meccanismi sottostanti a una determinata iniziativa che promuove il cambiamento di atteggiamenti e comportamenti tra i soggetti radicalizzati, la ricerca che ne esplora il ruolo è fortemente da incoraggiare. Nonostante queste limitazioni, la scoping review ha consentito una sintesi dei risultati degli studi qualitativi che, nello specifico, hanno esplorato le esperienze del personale dei programmi, delle parti interessate e dei beneficiari coinvolti nei programmi di prevenzione e contrasto della radicalizzazione all’interno dei sistemi correzionali. Nonostante un possibile bias di desiderabilità sociale, questi risultati potrebbero offrire spunti e suggerimenti interessanti a coloro che gestiscono programmi contro la radicalizzazione tra i detenuti. Sembra trovare altresì conferma la mancanza di metodologie standardizzate e indicatori comuni per valutare il successo delle azioni volte a prevenire e contrastare l’estremismo violento e la radicalizzazione. In termini pratici, tale situazione ostacola la possibilità di confrontare i programmi e di stabilire cosa abbia funzionato meglio e quali fattori li abbiano resi efficaci. In particolare, al momento, il campo della ricerca sulla valutazione delle iniziative contro la radicalizzazione all’interno dei sistemi correzionali sembra ancora doversi confrontare con diverse difficoltà. In tal senso, si auspica chesi possapresto rinvenire a modalità più rigorose per valutare l’efficacia di questi programmi, così da offrire prove più solide che possano guidare pratiche e interventi futuri di reale successo.

 

 

  1. Strategievs. buoni risultati.

 

Il rafforzamento della coerenza dei sistemi di prevenzione della radicalizzazione in carcere con gli standard dei diritti umani richiede innanzitutto il rafforzamento delle basi legislative condivise su cui si fondano e vengono adottate le misure in questione. Le amministrazioni penitenziarie e di polizia adottano le misure pertinenti seguendo procedure amministrative opache, guidate da criteri sostanziali contenuti in istruzioni interne prive di un chiaro status giuridico e di accessibilità. Ciò lascia spazio a un’ampia discrezionalità e persino all’arbitrarietà e, quindi, a un trattamento potenzialmente discriminatorio e parziale dei detenuti, soprattutto quando il personale penitenziario non è adeguatamente formato o dotato di personale e le carceri sono sovraffollate. Le misure dovrebbero basarsi sulla legislazione primaria e dimostrarsispecificamente dedicate a regolamentare, cioè ad attribuire e limitare i poteri e le competenze della polizia e dell’amministrazione penitenziaria in materia di prevenzione della radicalizzazione. Questo upgrade della qualità giuridica delle fonti pertinenti presenta diversi vantaggi. In primo luogo, consente la deliberazione, la trasparenza e il controllo pubblico e stabilisce meglio i vincoli giuridici per la polizia e l’amministrazione penitenziaria. In secondo luogo, facilita il controllo giudiziario delle relative misure, fornendo standard sostanziali e procedurali su cui basare il controllo. In terzo luogo, aiuta a collegare e valutare meglio i quadri giuridici interni con le fonti internazionali ed europee pertinenti. A questo proposito, uno sviluppo positivo e un potenziale esempio di buona pratica sono forniti dalla Francia, che ha recentemente sistematizzato il settore. Sebbene le prime misure applicabili ai cosiddetti detenuti radicalizzati fossero di natura amministrativa, la maggior parte di esse è ora diventata legge (in particolare dal 2019). Inoltre, il regime per affrontare la radicalizzazione è contenuto nel codice penitenziario. Anche i regolamenti interni delle strutture carcerarie sono indicizzati al codice penitenziario. Strumenti legislativi ad hocsono applicabili ai detenuti radicalizzati”, come la l.francese  30 luglio 2021 sulla prevenzione degli atti terroristici e l’intelligence. In questo contesto, è fondamentale disporre di definizioni chiare e giuridicamente vincolanti di radicalizzazione, basate sulle migliori evidenze socio-psicologiche. Ciò potrebbe, da un lato, limitare l’adozione di misure sub-legislative e amministrative opache da parte dei dipartimenti di polizia e penitenziari competenti e, dall’altro, guidare meglio i tribunali nella loro valutazione e revisione di tali misure. È importante che tali fonti giuridiche non si concentrino esclusivamente sulla radicalizzazione jihadista, ma forniscano strumenti e linee guida volti a evitare rischi di applicazione distorta. È inoltre fondamentale che la legislazione dedicata si rivolga adeguatamente alla fascia d’età più vulnerabile, con disposizioni specifiche riguardanti le garanzie sia sostanziali che procedurali. A quest’ultimo proposito, la legislazione pertinente non dovrebbe fornire solo gli standard sostanziali riguardanti, ad esempio, le pratiche discriminatorie, ma dovrebbe fissare anche garanzie procedurali. La revisione periodica interna della necessità e dell’adeguatezza delle misure adottate da parte delle amministrazioni penitenziarie non è di per sé sufficiente, se non è accompagnata da meccanismi di tutela giudiziaria. Infatti, a prescindere dalla qualificazione giuridica dell’ordinamento interno, le misure che incidono profondamente sul trattamento penitenziario dei detenuti dovrebbero essere sottoposte a un efficace e tempestivo controllo giudiziario, soprattutto se non costituiscono necessariamente parte della pena originariamente inflitta e se sono potenzialmente in grado di incidere sulla risocializzazione del detenuto. Come minimo, e seguendo la giurisprudenza della Corte europea in materia, i detenuti dovrebbero poter accedere a meccanismi di revisione giudiziaria delle misure che riguardano la loro classificazione, il regime di confinamento, la collocazione e il trasferimento, quando sono basate sulla presunta prevenzione della radicalizzazione. Il controllo giudiziario non dovrebbe limitarsi alla revisione della regolarità procedurale delle misure adottate. Dovrebbe includere anche un esame sostanziale e, soprattutto quando si tratta di giovani adulti, dovrebbe essere effettuato da giudici con una formazione specifica, assistiti da esperti e funzionari con competenze specifiche. Il progetto SERENYha già segnalato l’opportunità di adozione di misure rivolte alla specifica formazione degli operatori. Un’altra serie di strategie si concentra sul superamento della persistente centralità dell’approccio di prevenzione del crimine. A questo proposito, un’esperienza interessante è quella dell’amministrazione catalana che, seguendo le linee guida più avanzate a livello internazionale, opera secondo un paradigma basato sui bisogni e collega meglio la radicalizzazione alla vulnerabilità (18). In particolare, piuttosto che sugli indicatori di un comportamento potenzialmente criminale, questo approccio si concentra su persone con caratteristiche cognitive specifiche, come il pensiero laterale limitato, la mancanza di ragionamento critico e la facilità di essere influenzati. L’idea di fondo è quella di lavorare con queste persone nello stesso modo in cui si lavora con gli altri detenuti, concentrandosi sui loro bisogni specifici (sia sociali che personali), non diversi da quelli di altre tipologie criminali. Questo approccio individualizzato si è dimostrato efficace, in base a un confronto con la proiezione nazionale. Il risultato del solo 2% (corrispondente a un singolo caso) era stato radicalizzato nelle carceri della Catalogna induce a ritenere l’approccio basato sulla vulnerabilità più coerente con i requisiti stabiliti a livello internazionale ed europeo. Le considerazioni sul rilievo centrale dei diritti umani sono qui integrate nel trattamento complessivo dei detenuti e non vengono prese in considerazione a posteriori. Inoltre, non è richiesta una classificazione specifica della pericolosità criminale, che comporta il rischio di stigmatizzazione ed emarginazione, particolarmente dannosa per individui appartenenti a gruppi di età specifici come i giovani adulti.

Certo, l’adozione di questo approccio è meno problematica nei casi – come nell’esperienza catalana – in cui le strutture penitenziarie sono gestite da amministrazioni regionali e non si occupano di detenuti condannati per reati di terrorismo o estremismo violento, che sono invece affidati a istituti gestiti dall’amministrazione penitenziaria nazionale con la collaborazione dei servizi antiterrorismo. In Belgio, le diverse competenze tra i livelli nazionali e subnazionali del governo si sono rivelate una fonte di incertezza nella gestione della prevenzione della radicalizzazione. Tuttavia, disaccoppiare le strategie di prevenzione della radicalizzazione dall’imprinting originale di prevenzione del crimine, almeno per i detenuti “ordinari”, si rivela un percorso altrettanto promettente. Un’altra strategia alternativa da seguire e implementarenella maggiore attenzione verso la giustizia riparativa e l’inclusione democratica del ristretto nel circuito sociale. Le misure di giustizia riparativa, in particolare, sono da tempo indicate come percorsi da potenziare per prevenire la radicalizzazione, soprattutto di gruppi vulnerabili come i giovani adulti. Tuttavia, sebbene tali misure siano già disponibili nella maggior parte dei Paesi analizzati e teoricamente applicabili ai crimini legati al terrorismo, le esperienze attuali, soprattutto in Francia (19) e in Belgio (20), hanno dimostrato quanto sia difficile implementarle praticamente. Tra le difficoltà, si possono annoverare la mancanza di coordinamento tra le strutture detentive che applicano standard diversi nella promozione e nell’informazione sugli strumenti di giustizia riparativa; l’opposizione del personale di sicurezza e carcerario locale; la posizione geografica delle carceri, che spesso rende difficiliinterventi a livello locale, ad esempio per l’organizzazione di incontri di gruppo tra autori e vittime. Tuttavia, le stesse esperienze, così come le iniziative simili sviluppate in Germania, indicano opportunità promettenti per sfruttare appieno il potenziale della giustizia riparativa e delle strategie di inclusione creazione e rafforzamento di meccanismi nazionali di coordinamento tra le strutture di detenzione e le loro strutture di gestione (21); di promozione e informazione sia per le vittime che per gli autori di reato sulle misure disponibili; di formazione permanente e sensibilizzazione specifica sulla giustizia riparativa del personale penitenziario e dei direttori di struttura.

La reale efficacia delle misure di giustizia riparativa deve essere soprattutto misurata sulla base della loro attuazione nei confronti dei detenuti non condannati per reati legati all’estremismo o al terrorismo. Se si vogliono superare i limiti dell’approccio di prevenzione del crimine, il reale potenziale delle misure di giustizia riparativa come strumento di prevenzione della radicalizzazione deve essere individuato nella loro effettiva implementazione nei confronti dei criminali “comuni”, proprio allo scopo di evitare processi di radicalizzazione nelle persone più vulnerabili e che potrebbero radicalizzarsi in carcere anche se non hanno commesso alcun reato legato a ideologie estremiste.

Sulla stessa linea, un’altra via da seguire per rafforzare la coerenza dei Paesi analizzati con gli standard dei diritti umani riguarda le strategie di promozione della democrazia e di inclusione civica. A questo proposito, l’esempio più sviluppato è rappresentato dalla Germania. Qui la deradicalizzazione nelle carceri è di competenza dei Länder. Tuttavia, il governo federale, nell’ambito della  “Strategia per prevenire l’estremismo e promuovere la democrazia” del 13 luglio 2016 (22) ha promosso sempre più l’impegno civico e il comportamento democratico a livello locale, statale e federale con programmi come “Vivere la democrazia! Attivi contro l’estremismo di destra, la violenza e l’odio” e “Coesione attraverso la partecipazione”. Questi programmi, sostenuti a livello federale,hanno coinvolto associazioni, organizzazioni, progetti e iniziative per promuovere la democrazia e la diversità e per combattere l’estremismo di destra, il razzismo, l’antisemitismo, l’estremismo islamico e altre forme di atteggiamenti antidemocratici e di odio, come l’omofobia e la transfobia, la violenza, l’odio e la radicalizzazione. In tutta la Germania, questi programmi sostengono lo sviluppo di partenariati locali per la democrazia a livello comunale, di centri per la democrazia a livello statale e lo sviluppo strutturale di ONG a livello nazionale a livello federale, nonché progetti pilota su fenomeni selezionati di inimicizia di gruppo, nelle aree rurali e sulla prevenzione della radicalizzazione nell’estremismo di destra, nell’estremismo islamico e nella militanza di sinistra.Anche in questo caso, tuttavia, è essenziale stabilizzare e aumentare i finanziamenti per il personale penitenziario specializzato – sia educativo che di custodia – e garantire i diritti umani dei detenuti indipendentemente dalla strategia specifica perseguitaex post. Idealmente, e considerando che la radicalizzazione non si limita al jihadismo, la formazione del personale carcerario non dovrebbe essere lasciata a iniziative esterne e relativamente episodiche, siano esse più o meno coordinate a livello europeo, piuttosto, dovrebbe essere inclusa nella formazione permanente e in alcuni casi persino nel processo di assunzione delle amministrazioni penitenziarie, come parte dei requisiti professionali del personale.

L’analisi sinora condotta dimostra che l’effettiva coerenza delle misure di prevenzione della radicalizzazione – soprattutto quelle riguardanti i gruppi più vulnerabili come i giovani adulti –

con gli standard di tutela dei diritti umani può essere valutata soltanto prendendo in considerazione il sistema penitenziario di un determinato Paese nella sua interezza. Aumentare la qualità e la quantità del personale specializzato e migliorare le condizioni generali delle strutture penitenziarie appare essenziale per qualsiasi strategia efficace di prevenzione della radicalizzazione realmente ispirata dal rispetto delle garanzie fondamentali.

 

 

A cura di Angelo Golia, Maria Pia Iadicicco, Paola Maggio, Mena Minafra (Università di Palermo).

 

 

RIFERIMENTI

  1. Partner del Progetto [https://www.sereny.eu/] sono l’Università degli Studi della Campania Luigi Vanvitelli (UNIVAN) e l’Università degli Studi di Palermo (UNIPA) per l’Italia, Universität für Weiterbildung Krems (DUK) per l’Austria e la Germania, Avokati I Popullit (AP) per l’Albania, Universitat De Barcelona (UB) per la Spagna, Mirovni Institut (MI) per la Slovenia, Prison Insider per la Francia e il Belgio. Partner scientifico per l’Italia il DAP.
  2. In alcuni Paesi, come la Francia, i detenuti di età compresa tra i 18 e i 29 anni sono considerati “giovani adulti”.
  3. Higley, Elena (2019) “Defining Young Adulthood”, DNP Qualifying Manuscripts. 17, disponibile all’indirizzo: https://repository.usfca.edu/dnp_qualifying/1.
  4. Spesso – ma non sempre – equiparati ai bambini ai fini della tutela dei diritti: si veda, ad esempio, Priscilla Alderson; (2008) “Young people’s rights: children’s rights or adults’ rights”. Youth & Policy” (100) pp. 15-26, disponibile su: https://discovery.ucl.ac.uk/id/eprint/1493918/; Robert T. Kinscherff e Thomas J. Grisso (2013) “Human Rights Violations and Standard 1.02: Intersections with Human Rights Law and Applications in Juvenile Capital Cases”, Ethics & Behavior (23), 71-76, doi: 10.1080/10508422.2013.757963; Alyssa Wright (2018) “Extended Adolescent Development in International Juvenile Justice: Modernizing the U.N. Standards and Norms with Scientific Progress and Law”, disponibile all’indirizzo: https://ssrn.com/abstract=3302404.
  5. Si veda, ad esempio, la Direttiva (UE) 2017/541 e le relative critiche contenute nella Relazione dell’Agenzia per i diritti fondamentali del 2021 sopra richiamata.
  6. European Committee on Crime Problems (Cdpc) and Council For Penological Co-Operation (Pc-Cp), “Handbook for Prison And Probation Services Regarding Radicalisation And Violent Extremism”, Pc-Cp\Docs 2016\Pc-Cp(2016)2_E Rev4, Strasburgo, 1 dicembre 2016 PC-CP (2016) 2 rev 4 , spec. par. 108-109; Beelmann, A. (2020) “A Social-Developmental Model of Radicalization: A Systematic Integration of Existing Theories and Empirical Research” International Journal of Conflict and Violence (14), doi: 10.4119/ijcv-3778; -Campelo , N., Oppetit, A., Neau, F., Cohen, D., Bronsard, G. (2018) “Who are the European youths willing to engage in radicalisation? A multidisciplinary review of their psychological and social profiles” Eur Psychiatry (52), 1-14, available at: doi: 10.1016/j.eurpsy.2018.03.001.
  7. il punto 12 della Dichiarazione dei ministri della giustizia degli Stati membri del consiglio d’Europa sul ruolo della giustizia riparativa in materia penale, 13 e 14 dicembre 2021, Venezia.
  8. Per una fonte di informazioni completa e aggiornata sulla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo sui diritti dei detenuti, si veda ECtHR Registry, “Guide on the case-law of the European Convention on Human Rights Prisoners’ rights. Aggiornata al 30 aprile 2022”, disponibile all’indirizzo: https://www.echr.coe.int/Documents/Guide_Prisoners_rights_ENG.pdf.
  9. la “Guida all’articolo 13 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo Diritto a un ricorso effettivo”. (https://www.echr.coe.int/documents/guide_art_13_eng.pdf.)
  10. Ciò è particolarmente evidente anche in una recente proposta di legge parlamentare italiana non approvata (“Abbinamento delle proposte di legge C. 243 e C. 3357-A finalizzate all’introduzione di una serie di misure, interventi e programmi per la prevenzione dei fenomeni eversivi di radicalizzazione violenta, ivi compresi i fenomeni di radicalizzazione e diffusione dell’estremismo violento di matrice jihadista”), fornisce le definizioni giuridiche di “radicalizzazione violenta” e “radicalizzazione jihadista”. In particolare, l’art. 1, comma 2, di tale disegno di legge prevede che: (a) per “radicalizzazione violenta” si intende il fenomeno di persone che abbracciano opinioni, punti di vista e idee che potrebbero portare ad atti terroristici, come definito dal quadro normativo europeo; (b) per “radicalizzazione jihadista” si intende il fenomeno di persone che, pur non avendo rapporti stabili con gruppi terroristici, abbracciano ideologie jihadiste, ispirate all’uso della violenza e del terrorismo, anche attraverso l’uso del web e dei social network”.
  11. Un’eccezione degna di nota riguarda il Belgio, dove l’espressione “processo di radicalizzazione” è definita nella legge organica del 1998 come “un processo durante il quale una persona o un gruppo di persone subisce influenze tali che questa persona o questo gruppo di persone, a un certo punto, sarà mentalmente plasmato o disposto a commettere atti terroristici”. La Nota strategica del 2021 offre una propria definizione del processo di radicalizzazione: “Un processo dinamico che inizia con un allontanamento dalla società e dal sistema politico, una crescente intolleranza verso le idee che non si condividono e una crescente disponibilità ad accettare la violenza come mezzo per imporre le proprie idee agli altri”. Il termine “radicalismo” è definito nel Piano d’azione contro la radicalizzazione in carcere (Piano R): “Tendere e/o sostenere cambiamenti drastici nella società, che possono rappresentare una minaccia per il sistema democratico delle leggi (obiettivo), potenzialmente utilizzando metodi antidemocratici (mezzi), che possono danneggiare il funzionamento del sistema democratico delle leggi (effetto); o, più in generale: “il radicalismo è la volontà di accettare le conseguenze ultime di un certo modo di pensare e di metterle in pratica”.
  12. Si veda Moghaddam, F. M. (2005) “The staircase to terrorism: a psychological exploration” Am Psychol (60), 161-9. doi: 10.1037/0003-066X.60.2.161; e Dandurand, Y., (2015) “Social inclusion programmes for youth and the prevention of violent extremism”, in Countering Radicalisation and Violent Extremism Among Youth to Prevent Terrorism, Marco Lombardi e altri, eds., NATO Science for Peace and Security Series (Amsterdam, IOS Press, 2014), 22-36.
  13. Si veda ancora Dardurand Y., “Social inclusion”.
  14. La rete europea di operatori che lavorano con individui radicalizzabili o radicalizzati. (https://home-affairs.ec.europa.eu/networks/radicalisation-awareness-network-ran_en.)
  15. Comitato sui diritti dell’infanzia Commento generale n. 24 (2019), “I diritti dei minori nella giustizia minorile”, che sostituisce il Commento generale n. 10 (2007) del Comitato sui diritti dell’infanzia (CRC), spec. par. 112.; Ufficio delle Nazioni Unite contro la droga e il crimine (2016): Handbook on the management of violent extremist prisoners and the prevention of radicalization to violence in prisons, chapter 1; disponibile all’indirizzo: https://www.unodc.org/pdf/criminal_justice/Handbook_on_VEPs.pdf; European Committee on Crime Problems (Cdpc) and Council For Penological Co-Operation (Pc-Cp), “Handbook for Prison And Probation Services Regarding Radicalisation And Violent Extremism”, Pc-Cp\Docs 2016\Pc-Cp(2016)2_E Rev4, Strasburgo, 1 dicembre 2016 PC-CP (2016) 2 rev 4, par. 164-166.
  16. OIP-SF Budget pénitentiaire 2022, ou la politique de l’autruche, 24 gennaio 2022, https://oip.org/analyse/budget-penitentiaire-2022-ou-la-politique-de-lautruche/ .
  17. Iannello N. M. – Lo Cricchio M. G. – Musso P.- Grattagliano I.- Inguglia C.- Lo Coco A. (2023), “Radicalization in Correctional Systems: A Scoping Review of the Literature Evaluating the Effectiveness of Preventing and Countering Interventions, Journal of Radicalizationn. 34, 177 ss.
  18. Si veda, ad esempio, Ufficio delle Nazioni Unite contro la droga e il crimine (UNODC), “Handbook on the Management of Violent Extremist Prisoners and the Prevention of Radicalization to Violence in Prisons”, ottobre 2016, 107-118.
  19. Inspection Générale de la Justice, Inspection de fonctionnement à la maison centrale d’Arles suite à l’agression d’Yvan Colonna, Rapport définitif, luglio 2022, disponibile su: https://www.gouvernement.fr/upload/media/content/0001/03/b7b96024834f8d138fb006a0e6d61438c689df86.pdf.
  20. Si vedano i siti web dei mediatori penali: https://www.mediante.be/mediante.php (in Vallonia); e https://moderator.be/samenspraak/ (nelle Fiandre).
  21. Ciò è particolarmente evidente nella “Rete di prevenzione della violenza” in Germania, che si è dedicata fin dall’inizio a combattere efficacemente l’effetto moltiplicatore degli istituti penitenziari per i processi di radicalizzazione o il loro utilizzo come terreno di caccia per il reclutamento di estremisti. Per un elenco non esaustivo di progetti di deradicalizzazione e prevenzione dell’estremismo nelle carceri, si veda la pagina web: demokratie-leben.de.
  22. Disponibile all’indirizzo: https://www.bmfsfj.de/bmfsfj/meta/en/publications-en/federal-government-strategy-to-prevent-extremism-and-promote-democracy-115450 .

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