La “domandina” nell’esperienza del direttore del carcere Ucciardone di Palermo

Qualche anno fa, quando dirigevo il carcere Sollicciano di Firenze, mi è stato proposto di realizzare un progetto di Street Art coinvolgendo un gruppo di circa dodici detenuti. Con il Capo dell’area educativa abbiamo deciso di accogliere la proposta e rivolgere il progetto a detenuti inseriti nel circuito dei “Protetti”, ossia coloro i quali, imputati o condannati per lo più per reati di violenza sessuale, sono considerati veri e propri paria dagli altri detenuti (a Palermo vengono definiti “scafazzati”, con una locuzione dispregiativa che, pronunciata con la tipica cadenza panormita, assume il significato di uno sputo in pieno volto).

I “Protetti”, come tutte le minoranze all’interno di un carcere (le donne detenute in sezioni di istituti maschili, tanto per fare un esempio), sono pesantemente svantaggiati, perché possono accedere ad un novero ridotto di attività rieducative, appositamente loro dedicate, data l’impossibilità di far loro frequentare corsi scolastici, professionali ed altro assieme ai detenuti comuni i quali, come già accennato, rifiutano categoricamente di “sporcarsi” frequentandoli.

La proposta, dunque, era arrivata al momento giusto, dato che avevamo serie difficoltà a trovare attività per tenere impegnati i sunnominati “Protetti”. Il carcere di Sollicciano, inoltre, si prestava bene alla bisogna, disponendo di ampi locali al chiuso adiacenti al cortile dei passeggi della relativa sezione che garantivano, come si ripete ogni giorno nelle carceri italiane, ordine e sicurezza. Dire di sì è stato quindi naturale, come è stato naturale porre la condizione di dare massima libertà all’espressione artistica dei partecipanti.

Quando, concluso il progetto, me ne è stato presentato il risultato, sono rimasto letteralmente senza parole. Il gruppo dei partecipanti aveva sublimato, su tre grandi pareti, la percezione del loro rapporto con l’Amministrazione: minuscoli detenuti stavano sepolti sotto montagne di carta, su cui si ripeteva “Attenda”; altri guardavano speranzosi un enorme telecomando sui cui tasti, come una nemesi, si alternavano le parole attenda, aspetti, attenda, aspetti… Attorno svolazzavano, come gabbiani famelici, grandi prestampati, recanti il simbolo della Repubblica, l’intestazione del Ministero della Giustizia e la dicitura, in alto a destra, “mod. 393 carceri”… Le famigerate “domandine”!

Trascorsi ventotto anni al servizio dell’Amministrazione penitenziaria, non so ancora dire con certezza chi abbia inventato le “domandine” né, soprattutto, se siano un retaggio del passato remoto o siano nate assieme all’Ordinamento del 1975 o, piuttosto, al Regolamento del 1976.

Sia come sia, le domandine sono un vero e proprio monstrum, un’invenzione diabolica pensata per pseudo-procedimentalizzare ciò che non potrebbe, né dovrebbe, essere procedimentalizzato, ossia una qualsiasi richiesta rivolta da un detenuto alla Direzione.

Mi spiego: se una qualunque delle oltre cinquantacinquemila persone detenute nelle carceri italiane vuol chiedere di parlare con il Direttore, il Comandante, l’Educatore o chiunque altro degli operatori, professionali o volontari, deve compilare il “modello 393” (la “domandina”, appunto), consegnarla al “lavorante” di sezione (un altro detenuto il quale lavora alle dipendenze dell’Amministrazione e, tra i propri compiti in genere annovera anche quello di raccogliere le “domandine”) ed attendere i tempi, più o meno lunghi, di risposta.

Premesso che spesso la risposta non arriva, e per ciò le medesime “domandine” vengono compulsivamente ripresentate più e più volte, appestando l’intero sistema di carte inutili (nel senso che si riproducono senza alcun risultato), è interessante rilevare che l’invenzione del “modello 393” rappresenta, a mio avviso, il punto più alto della negazione dei diritti dei cittadini detenuti. Una “domandina” non è un atto amministrativo, questo è certo, poiché non viene tracciata attribuendo un protocollo identificativo. Non è soggetta, pertanto, alle norme che regolano gli atti della pubblica amministrazione, quali quelle concernenti i termini di risposta, la formazione del silenzio assenso o rigetto, l’ottemperanza.

Sono pezzi di carta, apparentemente nobilitati dall’intestazione ed ufficializzati dall’attribuzione del rango di “modello 393”, ma di fatto mortificano le persone detenute costrette ad utilizzarle e risultano dannose per l’intero sistema penitenziario che impegna tempo e risorse per lavorarli.

Già lo stesso termine, “domandina”, è sinonimo di qualcosa di non ben definito, che si trova ai margini del diritto (o sotto di esso), che vale poco, insomma, ed ha chiaro stampo paternalistico, per giunta.

Il percorso che segue una “domandina – mod. 393” è, soprattutto nei grandi penitenziari, assai lungo e farraginoso. Una volta consegnata al “lavorante” (in molti istituti le “domandine” vengono imbucate in una cassetta, quindi raccolte dal “lavorante”) la “domandina” giunge, assieme a tutte le altre, al “Capoposto”, ossia un Assistente della Polizia penitenziaria il quale, durante la giornata, ha il compito di annotarvi alcune informazioni (numero della camera, piano e sezione il cui il detenuto interessato è ubicato) e, se ne è in possesso, le prime indicazioni circa i motivi della richiesta.

A questo punto (come già accennato il percorso descritto è quello tipico di un grande istituto, nei piccoli istituti è più breve), interviene l’Ispettore responsabile del reparto, il quale aggiunte le notizie eventualmente in suo possesso, consegna la “domandina” all’addetto all’ufficio comando, il quale la raccoglie insieme alle altre di argomento similare e le sottopone all’attenzione del Comandante o di uno dei vice Comandanti.

Questi compie una prima valutazione dell’istanza, se necessario richiede altre informazioni, altrimenti vi appone il proprio parere e la riconsegna all’ufficio comando, da cui perverrà al Direttore per la decisione finale. E per riprendere il percorso all’incontrario, sempre che il Direttore non ritenga necessarie informazioni aggiuntive o non sia necessario l’intervento di altri uffici della Direzione per provvedere a quanto richiesto dal detenuto. Nella migliore delle ipotesi, trascorrono quattro giorni prima che il detenuto istante riceva risposta. Ma possono trascorrerne molti di più.

Ora, l’esempio che ho proposto, quello di una richiesta di colloquio col Direttore o un funzionario non esaurisce la casistica del ricorso alle “domandine”. Per comprendere appieno la materia (e l’entità del problema), occorre considerare che tutto ciò che esula dalle regole prefissate va chiesto con “domandina”.

Prendiamo in considerazione, sempre a titolo di esempio, l’ipotesi di un detenuto il quale chieda di acquistare un farmaco da banco: i farmaci non vengono venduti tramite il servizio di Sopravvitto (il supermercato interno al carcere, con consegna a domicilio, direttamente in camera, a cura di altri detenuti addetti a tale servizio), per cui occorre una “domandina”, che deve passare anche dal Medico per l’autorizzazione di sua competenza, dall’ufficio Conti correnti perché attesti se il richiedente dispone o meno della somma necessaria, dal Comandante per il parere in merito all’incidenza sull’ordine e la sicurezza e, infine, dopo l’autorizzazione del Direttore, deve giungere ad un altro operatore il quale provvede all’acquisto in farmacia e consegna il prodotto con lo scontrino all’ufficio conti correnti che, scaricata la somma corrispondente dal conto corrente del detenuto interessato dà l’ultimo via libera.

Questo è quanto accade praticamente per qualsiasi richiesta delle persone detenute nelle carceri italiane: dalla spedizione di un vaglia all’effettuazione di un colloquio visivo o telefonico in più, passando per l’acquisto di un paio di scarpe o di un indumento intimo, tutto richiede la compilazione del famigerato “mod. 393”.

Immaginiamo ciò che accade in un qualsiasi giorno feriale nei quasi duecento penitenziari italiani: migliaia di “domandine” percorrono chilometri e chilometri, portate da un ufficio all’altro da solerti appartenenti alla Polizia penitenziaria con una carpetta sottobraccio, ingolfando (o, come ho detto prima, appestando) un sistema già di per sé in seria difficoltà.

I lettori si domanderanno perché ‘ste benedette “domandine” non vengono abolite. Già, perché?

Il motivo è, in linea di principio, duplice. Per un verso, le “domandine” rappresentano il principale (spesso anche l’unico) strumento di comunicazione tra i detenuti e la Direzione dell’istituto; per altro verso, la decisione sottoscritta dal Direttore su qualsiasi pezzo di carta ha l’effetto di deresponsabilizzare l’operatore finale (l’ha deciso il Direttore…!) e, alla fine della fiera, rassicura l’intera organizzazione.

Ma ci sono altre sfaccettature anzi, veri e propri corollari, discendenti della gestione contabile del “peculio” dei detenuti.

E’ noto che le persone detenute non possiedono denaro contante; il rischio di scambi illeciti, furti, vessazioni, sarebbe troppo elevato. Quando una persona passa dallo stato di libertà a quello di detenuto, deposita il denaro che ha in tasca, assieme a tutti gli oggetti di valore. Le somme di denaro depositate, al pari di quelle ricevute dalle famiglie o guadagnate lavorando, vengono quindi depositate, a nome dell’interessato, su di un conto corrente gestito dall’ufficio addetto, sotto il controllo del Contabile di cassa il quale custodisce effettivamente le somme di denaro, depositandole in cassaforte o versandole in un conto corrente postale.

Le somme che ciascun detenuto ha versato, a suo nome, sul conto corrente rappresentano il suo “peculio”.

Il sistema della contabilità penitenziaria, regolato principalmente da norme del 1923, richiede che ogni spesa sostenuta da persone detenute venga gestita in modo arcaico: si parte, appunto, da una richiesta (in genere si utilizza proprio una “domandina”) che, alla fine del suo percorso, viene custodita tra i documenti contabili, divenendo una “pezza d’appoggio” recante la richiesta avanzata dal detenuto e la sua firma, così giustificando la spesa sostenuta, per poi concludere la sua esistenza nei rendiconti di fine anno. Non è escluso che il “mod. 393” abbia visto la luce poco dopo il 1923 proprio per soddisfare le regole della contabilità penitenziaria. Un “pezzo di carta” vale l’altro…

Non ci sono speranze, dunque? Beh, si, qualche speranza c’è.

In primo luogo, considerato che molti Direttori (me compreso) dirigono due o più istituti, le “domandine” raggiungono la loro scrivania in casi rarissimi, essendo stati adottati sistemi di delega. Già solo per questo la filiera si accorcia, il percorso diventa più breve, l’attesa minore, almeno in teoria. E’ chiaro, tra l’altro, che il Direttore, una volta delegata la decisione, solo episodicamente riceve feedback in merito ai tempi di lavorazione delle istanze.

In secondo luogo, le “domandine” il più delle volte proliferano a causa dell’assenza di regole certe. Rimanendo nell’ambito della contabilità penitenziaria, ricordiamo che il peculio dei condannati è costituito da una parte disponibile ed una vincolata che, cumulandosi nel tempo, va (dovrebbe andare) a costituire il cosiddetto fondo di liberazione, ossia quel gruzzoletto cui la persona scarcerata si affida per le prime spese una volta tornato libero. Il fondo vincolato può essere reso disponibile, a richiesta del detenuto interessato, in tutto o in parte, sostanzialmente a discrezione del Direttore.

Poichè di soldi, al giorno d’oggi, ne girano pochi anche in carcere e, in ogni caso, il peculio disponibile non può superare l’importo di circa mille euro, le richieste di “svincolo” sono continue.

Personalmente, ho disposto che le richieste di rendere disponibili somme vincolate sino ad un certo importo (centocinquanta euro), in presenza di determinate condizioni sono da intendersi automaticamente autorizzate, senza bisogno di passare tutta la trafila sopra descritta. Sono tutti abbastanza contenti, mi pare di poter dire, i detenuti come gli operatori, dato che entrambi impiegano meno tempo e fatica, rispettivamente, ad ottenere una risposta ed a darla.

Nella vaghezza delle norme, è possibile allentare allo stesso modo qualche altro nodo che affatica il sistema generando carte, attese e lavoro inutili, ad esempio in materia di colloqui con terze persone. Ma è poca roba. Le “domandine” continuano ad appestare il sistema.

Altre soluzioni, quanto meno parziali potrebbero essere offerte dalla tecnologia: realizzando reti “chiuse” interne agli istituti penitenziari potrebbero istituirsi canali di comunicazione tra detenuti ed uffici, se non direttamente tra detenuti ed operatori. Ovviamente si tratterebbe di un percorso tutto da costruire, per ciò lungo e dal destino incerto, considerate anche le fortissime pulsioni verso un cambiamento del sistema penitenziario, di cui si parla da anni ma non arriva mai.

La soluzione vera, per come la vedo io, è quella di predisporre regole univoche, cogenti per tutti gli istituti, quanto meno su talune materie di interesse generale. In altri termini, occorre togliere ai Direttori almeno parte della discrezionalità che la legge o le circolari assegnano loro, perché le differenze tra ciò che è consentito e ciò che non lo è nei vari istituti penitenziari, francamente, sono a volte esageratamente evidenti e sono alla base di molte delle lamentele delle persone detenute.

E favoriscono il proliferare delle “domandine”.

dott. Fabio Prestopino

direttore della casa di reclusione di Palermo Ucciardone – Calogero Di Bona

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