- Il ricorso trova la sua origine nella vicenda del ricorrente – il sig. Andriy Gennadiyovych Yakovlyev – che, essendo stato stato condannato, per un reato di rapina, a nove anni di reclusione, inizi a scontare la pena nel carcere di Zamkova (novembre del 2014). Si tratta di un penitenziario costruito sulle vestigia di un antico monastero (risalente al 17° secolo), dove i detenuti erano ricorsi in più occasioni – fra il dicembre del 2014 e il maggio del 2017 – allo sciopero della fame <<in protest against the allegedly poor conditions of detention>>. In una di quelle occasioni, l’Amministrazione penitenziaria aveva deciso di fare ricorso alla alimentazione forzata, facendo ingerire a quattro detenuti liquido nutrizionale <<through a gastric rubber tube>>. A quanto risulta, poi, dalla documentazione depositata dal ricorrente, queste vicende erano state oggetto di una tavola rotonda , nell’ottobre del 2017, fra l’Ombudsman, un’organizzazione non governativa e alcuni funzionari del dicastero della giustizia in cui si era discusso “the situation regarding prisoners’ rights in Zamkova Prison” e in quella occasione era era emerso, fra l’altro, come in certi momenti la temperatura all’interno delle celle fosse scesa sotto gli 11° c. e, dunque, ci si sarebbe dovuti impegnare per dotare l’istituto penitenziario di un sistema di riscaldamento adeguato. Incontri analoghi, peraltro, si erano già tenuti in epoche precedenti, ma si doveva sconsolatamente prendere atto che essi non avevano prodotto alcun risultato in concreto, tanto che all’interno del carcere continuava a registrarsi una forte conflittualità tra l’amministrazione e i detenuti. Nel gennaio del 2018, una decina di reclusi, fra i quali il ricorrente, iniziarono un nuovo sciopero della fame; e il sig. Yakovlyev, per spiegare la protesta messa in atto, redasse un documento indirizzato al direttore del carcere del seguente tenore: “Starting from 22 January 2018 I refuse to consume any food in protest against unlawful actions of the prison administration, on account of systemic violations of my constitutional rights”. Il medico che ebbe a visitarlo qualche giorno dopo scrisse nel suo rapporto che: “I consider that there is a risk [to the applicant] of a permanent health disorder and an obvious danger to his life (…..) in order to save [the applicant’s] life and health, he should be subjected to force-feeding by administration of a nutritional liquid mixture through a tube”. A questo punto, la direzione del carcere si rivolse all’autorità giudiziaria per ottenere l’autorizzazione a procedere con l’alimentazione forzata. Il sig. Yakovlyev era presente all’udienza che si tenne davanti all’autorità giudiziaria e si oppose alla alimentazione forzata, osservando come, benché non si sentisse troppo bene, non ci fossero indicazioni per un serio deterioramento delle sue condizioni di salute e, d’altra parte, la procedura di alimentazione contro la volontà dell’interessato non fosse prevista dalla legge (<<the force-feeding procedure was not legally regulated>>). L’autorità giudiziaria, per , fu di diverso avviso, ritenendo sufficientemente provato come il rifiuto del cibo rischiasse di produrre danni irreparabili alla salute e ci fosse un oggettivo pericolo per la vita del detenuto. Ci considerato, concluse che l’alimentazione forzata richiesta dall’amministrazione carceraria <<not be regarded as degrading treatment>> e decise, pertanto, di accogliere l’istanza avanzata dal direttore.
Nel periodo compreso fra il 1° e il 5 febbraio 2018, il sig. Yakovlyev fu, dunque, sottoposto ad alimentazione forzata. Una procedura che è stata così documentata dal ricorrente: egli era ammanettato con le mani dietro la schiena e trattenuto da alcuni funzionari del carcere; uno di essi inseriva forzatamente uno speciale tubo di gomma nella profondità della sua gola, causandogli forti dolori e una sensazione intensa di soffocamento; le operazioni si protraevano per una durata che andava dai trenta ai novanta minuti [<<He was handcuffed with his hands behind his back and was held by several prison officers. One of the prison officers forcefully inserted a special rubber tube deep into the applicant’s throat causing him serious pain and making him choke. The whole process lasted from thirty to ninety minutes>>] .
Il 6 febbraio, il sig. Yakovlyev decise di interrompere lo sciopero della fame. Qualche giorno dopo, il giudice di seconde cure presso il quale era stata impugnata la prima decisione, rigett l’appello, statuendo che “ [the applicant’s] arguments that the court had no evidence of the existence of an obvious danger to his life are invented and not worthy of attention” , mentre “the arguments made in the appeal that the [chosen] force-feeding method was rather traumatic and not provided for by law are groundless”.
- Nel sottoporre questa vicenda al giudizio della Corte europea, il ricorrente ha sostenuto trattarsi di un caso del tutto analogo a quanto già esaminato in Nevmerzhitsky v. Ukraine (Eur. C. Human Rights, second section, 5 April 2005, application no. 54825/00): un procedimento all’esito del quale la Corte aveva ritenuto la violazione dell’art. 3 Conv. in considerazione del fatto che l’alimentazione forzata era stata praticata <<without medical justification and in a cruel manner>>. A parere del ricorrente, infatti, le autorità del carcere di Zamkova si sarebbero indotte a far ricorso a questa tecnica, nei suoi confronti e nei riguardi di altri detenuti, <<with the sole purpose of suppressing their protests against the appalling conditions of detention and unjust attitude of prison officials>>. Non solo, ma <<that measure had not been necessary from a medical point of view>> e <<had grossly breached his personal autonomy>> (§ 36).
Cominciando a esaminare il caso e assumendo come punto di riferimento iniziale i precedenti della Commissione che si sono venuti stratificando nella materia de qua, la Corte rileva preliminarmente come, quando un detenuto decide di praticare la sciopero della fame, tendano a entrare in conflitto, da una parte, il diritto – di natura strettamente personale (“an individual’s right” ) – alla protezione dell’integrità fisica dell’individuo (che trova riconoscimento nell’art. 3 Conv.) e, dall’altro, l’obbligo di attivarsi che grava sugli Stati (“the High Contracting Party’s positive obligation”) in conformità alla previsione contenuta nell’art. 2 Conv. (§ 41). Come già ebbe a evidenziare, infatti, la Commissione in una decisione resa a metà degli anni Ottanta (Eur. Comm. Human Rights, X. v Germany, 9 May 1984, application no. 10565/83), <<forced feeding of a person does involve degrading elements which in certain circumstances may be regarded as prohibited by Art. 3 of the Convention>>. D’altra parte, la Corte ha avuto modo in più occasioni di ribadire che <<a measure which is of therapeutic necessity from the point of view of established principles of medicine cannot in principle be regarded as inhuman and degrading>>: un assunto che <<can be said about force-feeding that is aimed at saving the life of a particular detainee who consciously refuses to take food>> (fermo restando che gli organi convenzionali <<must nevertheless satisfy themselves that the medical necessity has been convincingly shown to exist>>) (Eur. C. Human Rights, Nevmerzhitsky v. Ukraine, cit., § 94).
E’ noto, peraltro, che, secondo l’orientamento consolidato della giurisprudenza di Strasburgo, il precetto contenuto nel periodo iniziale dell’art. 2 §1 Conv. deve essere interpretato estensivamente, imponendo agli Stati membri non solo di astenersi da azioni che illegittimamente provochino la morte, ma di assumere altresì le iniziative necessarie per proteggere la vita delle persone sottoposte alla loro “giurisdizione” (v., per tutti, C. Russo – A. Blasi, sub art. 2, in AA.VV., Commentario alla Convenzione europea per la tutela dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, a cura di S. Bartole – B. Conforti – G. Raimondi, Padova, 2001, p. 40-41; in giurisprudenza il leading case è rinvenibile in Eur. C. Human Rights, L.C.B. v. United Kingdom, 9 June 1998, application no. 14/1997/798/1001, § 36 ). Essi, cioè, sono tenuti – as set out in Art. 2 – <<to secure to everyone the right to life >>: un impegno, che <<should in certain circumstances call for positive action on the part of the Contracting Parties, in particular an active measure to save lives when the authorities have taken the person in question into their custody>> (Eur. Comm. Human Rights, X v. Germany, cit.). In altre parole, se è fuor di dubbio che per gli Stati operi <<le devoir primordial d’assurer le droit à la vie en mettant en place une législation pénale concrète dissuadant de commettre des atteintes contre la personne>> (C. eur. Dr. Homme, deuxième section, Rappaz c. Suisse, décision 26 Mars 2013, requête 73175/10, § 48), è altresì costantemente ribadito dalla Corte come <<in the context of prisoners (…….) persons in custody are in a vulnerable position>> e, pertanto, <<the authorities are under a duty to protect them>>, in altre parole <<it is incumbent on the State to account for any injuries suffered in custody, which obligation is particularly stringent where that individual dies>> (Eur. C. Human Rights, Third section, Keenan v. United Kingdom, 3 April 2001, application no. 27229/95, § 91).
Dunque, allorché una persona detenuta si astiene volontariamente dall’assumere cibo, <<this may inevitably lead to a conflict between an individual’s right to physical integrity under art. 3 and the obligation under art. 2 of the Convention>> (cfr. Eur. Comm. Human Rights, X v. Germany, cit.): si tratta, peraltro, di un conflitto che <<is not solved by the Convention itself>> e che spetta alla Corte di comporre, caso per caso, pur nella consapevolezza che si tratta di un compito <<further complicated by the fact that both articles in question rank as the most fundamental provisions in the Convention and permit no derogations >>. In questa prospettiva, i giudici europei hanno potuto affermare in più occasioni che <<the authorities are under an obligation to protect the health of persons deprived of their liberty>> e, di conseguenza, <<a lack of appropriate medical care may amount to treatment contrary to Article 3>> (v., fra le altre, Eur. C. Human Rights, Fifth section, Ceesay v. Austria, 16 november 2017, application no. 72126/14, § 113). Coerentemente, <<the Court has found problematic from the point of view of Article 3 the placement in solitary confinement of a detainee who is at an advanced stage of a hunger strike and may present an increased risk of losing consciousness, unless appropriate arrangements are made in order to supervise his state of health>> (Eur. C. Human Rights, Palushi v. Austria, 22 December 2009, application no. 27900/04, § 72).
Da questo punto di vista, i giudici hanno potuto ricavare importanti indicazioni dalla c.d. “Declaration of Malta on Hunger Strikes”, predisposta dalla World Medical Association (una prima versione fu redatta, per l’appunto, a Malta dalla Assemblea generale nel novembre del 1991 ed è stata poi revisionata in più occasioni (l’ultima aggiornamento risale all’ottobre del 2017)). Nelle considerazioni preliminari, con cui si apre il documento, si legge, fra l’altro, come forme di protesta che si sostanziano nel rifiuto del cibo prolungato nel tempo <<occur in various contexts>>, ma <<they mainly give rise to dilemmas in settings where people are detained (prisons, jails and immigration detention centres)>>. In particolare, se <<short-term food refusals rarely raise ethical problems>>, al contrario <<prolonged fasting risks death or permanent damage for hunger strikers>> e, perci , <<can create a conflict of values for physicians>> (anche in considerazione del fatto che <<Hunger strikers rarely wish to die but some may be prepared to do so to achieve their aims>>). A fronte di queste situazioni, grava sui medici medici, anzitutto, un obbligo di informativa: pertanto, dopo aver acquisito <<a detailed and accurate medical history of the person who is intending to fast>>, <<the medical implications of any existing conditions should be explained to the individual>>. Non solo, ma <<Physicians should verify that hunger strikers understand the potential health consequences of fasting and forewarn them in plain language of the disadvantages>>. E’ essenziale, infatti, <<ensuring full patient understanding of the medical consequences of fasting is critical>> e, <<consistent with best practices for informed consent in health care, the physician should ensure that the patient understands the information conveyed by asking the patient what he or she understands>>. Dal punto di vista più strettamente sanitario, poi, viene anzitutto raccomandata – nella fase iniziale della azione di astensione dal cibo – <<a thorough examination of the hunger striker>> e, altresì, <<the management of future symptoms, including those unconnected to the fast, should be discussed >>. Nel corso dello sciopero, poi, <<medical examinations should be carried out regularly in order to determine necessary treatments>>, a condizione per che l’interessato acconsenta. In ogni caso, <<continuing communication between the physician and hunger strikers is essential. Physicians should ascertain on a daily basis whether individuals wish to continue a hunger strike and what they want to be done when they are no longer able to communicate meaningfully>>. Il medico deve anche sforzarsi di capire, infatti, <<whether the individual is willing, in the absence of their demands being met, to continue the fast even until death>>. Il documento predisposto dalla World Medical
Association si preoccupa, altresì, di precisare che <<Physicians should talk to hunger strikers in privacy and out of earshot of all other people, including other detainees>>. Ma, soprattutto, prescrive che <<physicians or other health care personnel may not apply undue pressure of any sort on the hunger striker to suspend the strike>>. Qualsiasi forma di terapia e di intervento medico, infatti, <<must not be conditional upon suspension of the hunger strike>>. E, soprattutto, <<any restraint or pressure, including but not limited to hand-cuffing, isolation, tying the hunger striker to a bed or any kind of physical restraint due to the hunger strike is not acceptable>>.
E’ questo, dunque, il quadro delle garanzie di natura convenzionale che vengono in gioco nella vicenda de qua, perché i giudici di Strasburgo escludono – come precisato in una precedente occasione – un’interferenza diretta del diritto al rispetto della vita privata (art. 8 Conv) nelle vicende dello sciopero della fame in ambito carcerario. Per la Corte, sono decisive, infatti, le ragioni fatte valere da chi, essendo recluso, decide di astenersi dal cibo: una scelta che, nel caso di specie, <<n’était pas motivée par la volonté de mettre fin à ses jours>>, quanto, piuttosto, dall’intento <<de faire pression sur les autorités nationales afin d’obtenir un changement de la législation sur les stupéfiants ainsi qu’une réduction de sa peine de prison>>. In situazioni di questo genere, pertanto, la Corte non pu reputarsi chiamata a <<examiner si le gouvernement a violé le droit du requérant de décider de quelle manière et à quel moment sa vie devait prendre fin>>, quanto, piuttosto, a <<s’assurer que les autorités nationales aient bien respecté l’obligation positive, qui leur incombait en vertu de l’article 2 de la Convention, de préserver la vie du requérant>> (C. eur. Dr. Homme, deuxième section, Rappaz c. Suisse, cit., § 52). Nella letteratura medico-legale (v., per tutti, B. Allegranti – G. Giusti, Lo sciopero della fame del detenuto. Aspetti medico-legali e deontologici, Padova, 1983), del resto, già da tempo è stato evidenziato come il rifiuto del detenuto di nutrirsi non si presti a essere inquadrato necessariamente nella figura dello sciopero della fame. Se non ci sono dubbi in tal senso, invero, quando la rinuncia al cibo sia messa in atto con una finalità rivendicativa (per certi aspetti, comunicativa) e, quindi, assimilabile ai “gesti suicidi” (l’intento, in questi casi, infatti, non è direttamente quello del darsi la morte, quanto, piuttosto, di conseguire una visibilità – anche mediatica e, in un certo senso, spettacolare – da parte del detenuto della propria esistenza>>), assai diverso è il caso di chi rifiuta di nutrirsi perché non più disposto a sopportare una condizione esistenziale che viene percepita come immeritevole di essere vissuta: un atteggiamento che, fra l’altro, non necessariamente trae origine dai rigori del sistema carcerario o dallo stigma sociale che si riconnette alla condizione di persona reclusa. Da questo punto di vista, merita ricordare come in una vicenda analoga a quella oggetto di scrutinio con la decisione in discorso, l’autorità giudiziaria del Paese chiamato poi a giudizio davanti alla Corte (nel caso di specie si trattava della Svizzera) avesse respinto l’istanza di un detenuto che, dopo aver intrapreso lo sciopero della fame, chiedeva la sospensione della pena, sostenendo che la propria condizione fosse assimilabile a quella di un detenuto a rischio di suicidio e perci incompatibile con la detenzione in carcere. A parere del Tribunale federale, infatti, sarebbe stato necessario verificare se la decisione di non dar seguito alla richiesta della interruzione della pena fosse stata rispettosa del criterio di proporzionalità (<<principe de proportionnalité>>) e aveva concluso che così era stato nel caso di specie, perché, quando un detenuto decide di rifiutare il cibo per mettere in atto una forma plateale di protesta al fine di essere scarcerato, la necessità di salvaguardare la << crédibilité de la justice pénale>> impone che la sua liberazione sia disposta solo nei casi in cui si riveli <<strictement impossible>> impedire in altro modo conseguenze irreversibili sul suo stato di salute. Dunque, legittimamente le autorità competenti avevano fatto ricorso alla alimentazione forzata per far fronte alla situazione di grave pericolo in cui era venuto a trovarsi il detenuto (cfr. C. eur. Dr. Homme, deuxième section, Rappaz c. Suisse, cit., § 18).
3. Dopo aver ribadito, anche nella vicenda in esame, che <<force-feeding aimed at saving the life of a particular detainee who consciously refuses to take food might in principle be acceptable from the standpoint of Article 3 of the Convention>>, la Corte torna a enunciare le condizioni cui è subordinato in concreto un giudizio di conformità di questa pratica al precetto convenzionale:
- deve essere riscontrato, anzitutto, che <<such a measure is of therapeutic necessity from the point of view of established principles of medicine>>; e si deve anzi pretendere che << the medical necessity for it has been convincingly shown to exist>>;
- la Corte è chiamata, poi, a <<ascertain that the procedural guarantees for the decision to force-feed are complied with >>;
- infine, I giudici europei pretendono che <<the manner in which the applicant is subjected to force-feeding during the hunger strike shall not trespass the threshold of a minimum level of severity envisaged by its case-law under Article 3 of the>> (§ 42).
Proprio ragionando attorno a queste tre elementi, la Corte già in altre occasione aveva concluso per la violazione dell’art. 3 Conv., dal momento che <<there was in particular no medical evidence that the applicant’s life or health had been in serious danger>>, piuttosto <<there were sufficient grounds to suggest that his force-feeding had in fact been aimed at discouraging him from continuing his protest>>. Inoltre, <<basic procedural safeguards prescribed by domestic law, such as clarifying the reasons for starting and ending force-feeding and noting the composition and quantity of food administered, had not been respected>>. Infine, la Corte <<was struck by the manner of the force-feeding, including the unchallenged, mandatory handcuffing of the applicant regardless of any resistance and the severe pain caused by metal instruments to force him to open his mouth and pull out his tongue>> (veniva anzi osservato come << less intrusive alternatives, such as an intravenous drip, had not even been considered, despite the applicant’s express request>>). Tutto ci considerato, dunque, i giudici avevano concluso nel senso che <<the manner in which the applicant had been repeatedly force-fed had unnecessarily exposed him to great physical pain and humiliation, and, accordingly, could only be considered as torture>> (Eur. C. Human Rights, Fourth section, Ciorap v. Moldova, 19 June 2007, application no. 12066/02).
D’altra parte, la Corte ha modo di confermare, nel caso in esame, l’orientamento ormai consolidato, alla luce del quale, se, per un verso, il deterioramento della condizioni di salute del detenuto <<caused by his going on hunger strike and/or refusing to accept treatment (…..) cannot then automatically be held imputable to the authorities>> (v., fra le altre, Eur. C. Human Rights, Third section, Makharadze and Sikharulidze v. Georgia, 22 November 2011, application no 35254/07, § 82), per l’altro, le autorità carcerarie <<may not be totally absolved of their positive obligations in such difficult situations, passively contemplating the fasting detainee’s demise>> (§ 43). E’ vero, infatti, che il divieto contenuto nell’art. 3 Conv. non pu essere interpretato nel senso di imporre un generalizzato obbligo <<to release detainees on health grounds>>, ci non di meno da tale precetto discende – come più volte rilevato dai giudici europei – <<an obligation on the State to protect the physical well-being of persons deprived of their liberty, for example by providing them with the requisite medical assistance>> (Eur. C. Human Rights, First section, Mouisel v. France, 4 November 2002, application no. 67263/01, § § 38-40). E, avuto riguardo alla specifica condizione dei detenuti che <<voluntarily put their lives at risk>>, la Corte è senz’altro orientata nel senso che <<facts prompted by acts of pressure on the authorities cannot lead to a violation of the Convention>>, a condizione , per , che <<those authorities have duly examined and managed the situation: this is the case in particular where a detainee on hunger strike clearly refuses any intervention, even though his state of health would threaten his life>> (Eur. C. Human Rights, Second section, Aytaç ÜNSAL and Ebru TİMTİK against Turkey, 8 June 2021, Application no. 36331/20, § 37).
Nel caso in esame, il ricorrente aveva prospettato una violazione delle garanzie convenzionali da parte delle autorità ucraine sotto un triplice profilo: il ricorso alla alimentazione forzata non era giustificato da alcuna necessità dal punto di vista medico; le modalità di esecuzione erano state brutali; infine, il vero intento era stato quello di soffocare le proteste in corso all’interno del carcere di Zamkova. La Corte ha ritenuto fondati tutti e tre questi motivi. Sotto il primo profilo, la Corte ricorda come, iniziato lo sciopero della fame il 22 gennaio 2018, il ricorrente era stato visitato dal personale medico del carcere già il 24 gennaio ed era stato sottoposto a una nuova visita appena cinque giorni dopo (il 29 gennaio). Ebbene, ancorché le sue condizioni personali non imponessero un ricovero immediato in ospedale stando a quanto certificato dallo stesso personale medico, <<he concluded […….] that the applicant’s force-feeding was required to save his life and health>>. Osservano, poi, i giudici europei come l’autorità giudiziaria, presso la quale si era rivolto il detenuto per reclamare contro la decisione dei medici, a sua volta, <<accepted that conclusion as sufficient grounds for ordering the applicant’s force-feeding>>, benché egli, trovandosi in condizioni di salute tali da avergli consentito comunque di partecipare all’udienza, denunciasse che <<there had been no serious deterioration of his health and that there would be no justification for his force-feeding from a
medical point of view>> (§ 46). Insomma, considerando tutti questi elementi – cioè, <<the lack of any explanation in the medical report in question of the nature and imminence of the risk of the applicant’s continued fasting to his life>>; inoltre, <<the absence of any need for his hospitalisation>> e, infine, <<his satisfactory health condition allowing him to attend the court hearing>> – la Corte ritiene di poter concludere nel senso che <<the medical necessity for the applicant’s force-feeding was not convincingly shown to exist>> (§ 47).
Riguardo, poi, ai profili processuali, la Corte conclude che nel caso in esame debba dubitarsi <<as to the effectiveness of the judicial control as a procedural safeguard against abuse>>. Già il giudice di primo grado aveva disposto, infatti, che si procedesse con l’alimentazione forzata <<without having duly responded to that legitimate concern and without having explored alternative means to avert the alleged risk to the applicant’s health>>; mentre non si era nemmeno preoccupato di prendere posizione sul motivo che riguardava <<the absence of any legally established procedures for force-feeding in Ukraine>>. Il giudice di appello, poi, aveva respinto l’istanza, limitandosi a bollare le argomentazioni proposte dal ricorrente <<as “groundless” and “not worthy of attention”>> (§ 48). Anche le modalità con cui si è proceduto alla alimentazione contro la volontà del detenuto si rivelano – agli occhi della Corte di Strasburgo – in contrasto con il precetto contenuto nell’art. 3 Conv. A fronte, invero, del silenzio della legge in materia, gli staff medici di qualsiasi carcere ucraino <<[could] carry out forcefeeding at his entire discretion>>. Ed è proprio <<the existence of such unfettered discretion>>, unitamente alla circostanza che agli atti non esiste alcuna prova su come si siano effettivamente svolte le operazioni, a far concludere i giudici nel senso che possa essere accolta la ricostruzione che ne ha fatto il ricorrente e a ritenere che a causa di esse <<he suffered excessive physical restraint and pain>> (§ 49).
Infine, dato che i detenuti del carcere di Zamkova avevano posto in essere – come riconosciuto dalle stesse autorità ucraine – una lunga serie di proteste per denunciare <<violations of their rights by the prison administration for years, but in vain>>, lo sciopero della fame da ultimo intrapreso dal ricorrente pu essere apprezzato – secondo l’opinione dei giudici europei – alla stregua di <<a form of protest prompted by the lack of other ways of making their demands heard>>. Sulle autorità ucraine gravava, dunque, l’obbligo di dar inizio a un’indagine che mirasse non solo ad accertare <<the true intention of and real reasons for the inmates’ protest>>, ma anche ad assicurare <<a meaningful response to their complaints and demands>>: sarebbe stato questo un passaggio ineludibile per poter valutare <<the proper examination and management of the situation by the State>>. La Corte deve prendere atto, per , che non c’è alcuna documentazione che di tutto ci le autorità ucraine si siano fatte carico e, anzi, <<the only response to the inmates’ hunger strike was their force-feeding>>. Un quadro probatorio, insomma, tale da non poter escludere che – conformemente a quanto prospettato dal ricorrente – <<his force-feeding was in fact aimed at suppressing the protests in Zamkova Prison>>.
4. Sia consentita, a questo punto, una breve riflessione attorno alle questioni affrontate dalla sentenza in oggetto. Si tratta di una decisione che si pone sostanzialmente in linea con una consolidata giurisprudenza della Corte di Strasburgo, secondo la quale il ricorso alla alimentazione forzata non si sostanzia, di per sé, in una violazione del divieto contenuto nell’art. 3 Conv.: quando questa tecnica risponde – conformemente alle indicazioni mediche condivise all’interno della comunità scientifica – a una necessità terapeutica, deve escludersi – almeno in via di principio – che ci si trovi di fronte a un’attività “disumana” o “degradante”. A maggior ragione quando il ricorso alla coazione si renda necessario per salvare la vita di una persona detenuta che consapevolmente rifiuti di alimentarsi: è lo stesso precetto infatti, che, ponendo a carico dello Stato l’obbligo di proteggere l’integrità fisica delle persone private della libertà, impone di mettere in atto tutti quegli interventi medici che, allo scopo, si rendano necessari (v., fra le tante, Eur. C. Human Rights, Nevmerzhitsky c. Ukraine, 5 April 2005, Application no. 54825/00, § 94). Ci posto, la Corte si è attribuita il compito di verificare, di volta in volta, se l’alimentazione forzata abbia trovato un’effettiva giustificazione nel caso concreto, perché se non fosse fornita adeguata prova circa la presenza di un “medical imperative”, se ne dovrebbe necessariamente concludere che <<force-feeding had been arbitrary>> e ragionevolmente dedurne che il ricorso a questa tecnica nel confronti del detenuto fosse in realtà mirato <<to humiliate or punish him>>.
Non è questa la sede per approfondire le complesse questioni che suscita la scelta di una persona di non alimentarsi fino ad arrivare al suicidio per ragioni di protesta; si tratta di una vicenda che, fra l’altro, si può affrontare – come è stato autorevolmente osservato – <<solo con atteggiamento sommesso: perché in cima alle varie catene deduttive, con le quali si pretende di risolverla, non vi è alcuna base scientifica, ma solo una personale gerarchia>> (v. E. Fassone, Sciopero della fame, autodeterminazione e libertà personale, in QG, 1992, 335). Ci si può , pertanto, limitare qui a osservare come le stesse fonti di soft law citate nella sentenza in oggetto siano orientate per soluzioni che vanno esattamente nella direzione opposto rispetto a quella su cui è ormai da tempo si è assestata la Corte di Strasburgo. Nella Declaration of Malta on Hunger Strikers, in particolare, si afferma già nel preambolo che <<An emotional challenge arises when hunger strikers who have apparently issued clear instructions not to be resuscitated reach a stage of cognitive impairment. The principle of beneficence urges physicians to resuscitate them but respect for individual autonomy restrains physicians from intervening when a valid and informed refusal has been made>>. Il rispetto della libertà di autodeterminazione della persona deve sempre prevalere, insomma, nei riguardi dell’obbligo di soccorrere che grava su chi esercita la professione medica. D’altra parte, se, al momento dell’intervento del medico, le condizioni mentali di chi pratica lo sciopero fossero tali da impedirgli di esprimere con chiarezza la sua volontà in ordine a un’eventuale terapia in grado si salvargli la vita, <<consideration and respect must be given to any advance instructions made by the hunger striker>> e, soprattutto, <<advance refusals of treatment must be followed if they reflect the voluntary wish of the individual when competent>>.
Per quanto riguarda, in particolare, l’alimentazione coattiva, si tratta di un intervento medico che <<when used in the patient’s clinical interest>> può essere apprezzato – stando al documento in parola – come <<ethically appropriate>>, a condizione, per , che <<competent hunger strikers agree to it>>. Dunque, <<where a prisoner refuses nourishment and is considered by the physician as capable of forming an unimpaired and rational judgment concerning the consequences of such a decision>>, deve prendersi atto che <<he or she shall not be fed artificially>>. In termini ancora più perentori si dice, poi, che, se <<forced feeding is never ethically acceptable>>, d’altra parte, <<even if intended to benefit, feeding accompanied by threats, coercion, force or use of physical restraints is a form of inhuman and degrading treatment>>.
Di seguito il link con la sentenza della Corte in esame:
a cura di Luca Bresciani