Tra riforma e “rivoluzione”: l’alba di nuovi equilibri nell’esecuzione penale?

Il 10 agosto scorso sono stati pubblicati sul sito del Ministero della Giustizia lo schema di decreto legislativo di riforma della giustizia penale e la relativa relazione illustrativa: tale riforma, nelle intenzioni dell’esecutivo, dovrebbe costituire un decisivo punto di svolta per la disciplina processual penalistica e per l’esecuzione penale in generale.

In particolare, tra i molti punti toccati dalla Riforma, assume notevolissima importanza l’intervento sul sistema sanzionatorio, nel quale deve segnalarsi il potenziamento delle sanzioni sostitutive delle pene detentive brevi e il loro allineamento con le (sempre meno) differenti misure alternative alla detenzione previste dalla legge di ordinamento penitenziario; in particolare, ciò avviene mediante il raddoppio dei termini per concedere le prime (da due anni a quattro anni) e l’eliminazione (ex art. 1 comma 17 della legge delega) della semidetenzione e della libertà controllata, “convertite” in semilibertà e detenzione domiciliare. Si legge nella relazione illustrativa al decreto che «[l]a scelta del Parlamento è stata di ampliare notevolmente l’area della pena detentiva breve sostituibile: il limite massimo di due anni di pena detentiva, infatti, viene raddoppiato. Il concetto di pena detentiva “breve” cambia e si allinea, nel giudizio di cognizione, con quello individuato in sede di esecuzione dall’art. 656, co. 5 c.p.p. Per effetto di interventi legislativi e della Corte costituzionale, infatti, il limite di pena detentiva inflitta fino al quale, di norma, il pubblico ministero deve sospendere l’ordine di esecuzione, dando al condannato la possibilità di chiedere al tribunale di sorveglianza una misura alternativa alla detenzione, è di quattro anni. Di fatto, la pena detentiva breve, nell’esecuzione penale, è la pena fino a quattro anni, che può essere eseguita ab initio fuori dal carcere, previa concessione di una misura alternativa alla detenzione. La scelta della l. n. 134/2021 è di allineare il limite massimo della pena sostituibile con quello entro il quale in sede di esecuzione può applicarsi una misura alternativa alla detenzione. Questa scelta comporta due effetti positivi sul sistema: a) fa venir meno l’integrale sovrapposizione dell’area della pena sospendibile con quella della pena sostituibile, ai sensi della l. n. 689/1981, promettendo così di rivitalizzare nella prassi le pene sostitutive; b) consente al giudice di cognizione di applicare pene, diverse da quella detentiva, destinate a essere eseguite immediatamente, dopo la definitività della condanna, senza essere ‘sostituite’ con misure alternative da parte del tribunale di sorveglianza, spesso a distanza di molto tempo dalla condanna stessa (come testimonia l’allarmante fenomeno dei c.d. liberi sospesi). La riforma, in altri termini, realizza una anticipazione dell’alternativa al carcere all’esito del giudizio di cognizione. 185 Più in generale, la riforma delle pene sostitutive promette positivi effetti di deflazione processuale e penitenziaria, inserendosi a pieno titolo tra gli interventi volti a migliorare l’efficienza complessiva del processo e della giustizia penale».

Detto allineamento comporta, come effetto domino, una vera e propria rivoluzione dal punto di vista processualistico: se prima il baricentro dell’esecuzione delle pene era la magistratura di sorveglianza, dopo la riforma, probabilmente, esso si sposterà a metà tra questa e il giudice della cognizione, il quale, secondo il nuovo art. 545 bis c.p.p., avrà la possibilità – con il consenso del condannato e grazie all’ausilio degli uffici di esecuzione penale esterna – di sostituire direttamente la pena della reclusione con le “nuove” sanzioni sostitutive brevi. Ricorda nuovamente la relzione al decreto che «[i]l meccanismo elaborato è ispirato al modello del sentencing di matrice anglosassone, ma non è del tutto estraneo al nostro ordinamento, che lo conosce nei processi davanti al giudice di pace (art. 33 d.lgs. n. 274 del 2000 che prevede che – in determinati casi – il giudice possa fissare una nuova udienza per svolgere alcuni accertamenti funzionali all’individuazione della pena più adeguata al caso concreto e – in quella successiva udienza, se ne ricorrono le condizioni – possa “integrare il dispositivo”)». Questo meccanismo potrà senz’altro favorire una riduzione del carico di lavoro che oggi grava sulla magistratura di sorveglianza e sui cc.dd. “liberi sospesi” ex art. 656 c.p.p. – i quali per lungo tempo attendono come poter scontare la propria pena -, anche se, inevitabilmente, andrà ad incrementare il lavoro dei giudici (sempre meno) del fatto.

A cura di Guglielmo Sacco

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