La questione posta all’attenzione della Suprema Corte di Cassazione trae origine dalla decisione del Tribunale di sorveglianza di Firenze di revocare la misura della detenzione domiciliare nei confronti di un detenuto per condanne in materia di stupefacenti; decisione adottata a seguito della comunicazione pervenuta dai Carabinieri della stazione Isola del Giglio con la quale si riferiva che il prevenuto era stato querelato per una violenta aggressione commessa.
Nello specifico, il Tribunale di sorveglianza ha valutato i referti medici di Pronto soccorso relativi alle lesioni riportate dalla persona offesa ed ha ritenuto inattendibile la versione dei fatti fornita dal condannato. Ulteriormente, ha reputato irrilevante, ai fini della decisione sulla misura alternativa, la remissione della querela della parte lesa.
Avverso tale ordinanza ha proposto ricorso il difensore del condannato, deducendo difetto di motivazione, dato l’errore commesso dal giudicante sia nel ritenere che una denuncia determini l’incompatibilità con la prosecuzione della misura alternativa, sia nell’omettere ogni spiegazione circa le ragioni per cui le violazioni della legge e delle prescrizioni abbiano rappresentato un dato impeditivo.
Inoltre, la difesa sostiene che il fatto descritto in querela fosse diverso e di minore gravità e, quindi, non tale da incidere negativamente sul comportamento del condannato. Invero, si sarebbe trattato di un episodio di lesioni colpose, non procedibile per intervenuta remissione di querela.
Sul punto, la Suprema Corte ha ritenuto adeguatamente motivata la decisione del Tribunale di sorveglianza, il quale ha provveduto ad una considerazione complessiva del fatto, non limitandosi alla notizia di reato, ma valutando altresì la trascrizione del file audio relativo all’aggressione, dalla quale emergevano le espressioni pronunciate dal condannato nonché le parole di una terza persona che lo invitava a desistere.
Per tali ragioni, la Corte di Cassazione ritiene che il Tribunale si sia uniformato al principio di diritto espresso dalla giurisprudenza di legittimità in una vicenda analoga, ove si affermava che “in tema di detenzione domiciliare, ai fini della valutazione della compatibilità o meno dei comportamenti posti in essere con la prosecuzione della misura, quando tali comportamenti possano dar luogo all’instaurazione di procedimenti penali, non è necessario che il giudice tenga conto dell’esito di questi ultimi, non essendo configurabile alcuna pregiudizialità, neppure logica, fra l’esito anzidetto e la valutazione in questione” (Cass. Pen., sez. I, sent. n. 25640/2013).
Inoltre, il Collegio ritiene che il Tribunale abbia correttamente considerato anche gli ulteriori elementi emergenti dal percorso di risocializzazione dell’interessato, spettando al decidente di valutare discrezionalmente l’incidenza della accertata violazione sulla possibilità di una proficua prosecuzione della misura, senza la necessità di richiamare lo stato di progressione nel trattamento qualora ritenga che la violazione sia di tale pregnanza da non poter essere ridimensionata nella sua portata prognostica.
In definitiva, dalla decisione della Suprema Corte ne discende che “in tema di detenzione domiciliare, ai fini della valutazione della compatibilità o meno dei comportamenti posti in essere con la prosecuzione della misura, quando tali comportamenti possano dar luogo all’instaurazione di procedimenti penali, non è necessario che il giudice tenga conto dell’esito di questi ultimi, non essendo configurabile alcuna pregiudizialità, neppure logica, fra l’esito anzidetto e la valutazione in questione”.
Qui il testo della sentenza.
A cura di Arianna Stefani