Una prospettiva che non è affatto funzionale a un progetto ispirato alla mera speculazione teorica, quasi una sorta di esercitazione accademica all’interno di un contesto giuridico-tecnologico à la page. Al contrario. L’importanza della raccolta e pubblicazione della giurisprudenza di merito – come ha rilevato lo stesso Consiglio superiore della magistratura – <<non è una scoperta di oggi, bensì era già nota fin dalla creazione del sistema informatico della Cassazione>>, che ha reso possibile <<la ricerca e la conoscenza dei provvedimenti del giudice di legittimità su tutto il territorio nazionale, così incidendo profondamente sullo stesso modo di rendere giustizia>>. Non meno importante è, però, la giurisprudenza di merito: <<non tutte le decisioni dei giudici di merito arrivano, invero, al vaglio della Corte di Cassazione; sicché molte questioni giuridiche trovano una loro soluzione solo nell’ambito della giurisprudenza di merito>>. Inoltre, <<le questioni nuove, che nascono da nuove leggi o nuovi problemi sociali, trovano soluzione nei giudizi di merito prima di approdare, eventualmente e tempo dopo, in Cassazione>>. Dunque, <<conoscere la giurisprudenza di merito è importante per sapere l’orientamento del singolo tribunale su questioni nuove o molto concrete>>. La conoscenza della giurisprudenza locale è indispensabile, peraltro, anche per <<i magistrati stessi, che sempre di più avvertono la necessità di costruire momenti di confronto, conoscenza e sintesi, quanto meno all’interno delle singole sezioni dei Tribunali>>. Una prospettiva che, peraltro, non si pone unicamente come traguardo quello di coniugare l’informatica al diritto, così da facilitare i modi della conoscenza e della fruizione di quest’ultimo. Ciò da cui prendono le mosse progettualità di questo tenore, infatti, è anche il proposito di orientare l’informatica a funzionare come volano neutrale per la più estesa e rapida fruizione del dato giuridico e, quindi, per il migliore esercizio della giurisdizione.
Questo tipo di ragionamenti, che ormai da tempo trovano sempre più spazio anche davanti al Consiglio superiore della magistratura con riguardo alla giurisdizione di cognizione, ci paiono sicuramente esportabili e, per certi versi, assumere addirittura i contorni di una pressante necessità, per quanto concerne il settore dell’esecuzione penitenziaria. Se è fuori discussione, infatti, che la giurisdizione di sorveglianza conserva tuttora quel livello di elevata discrezionalità insito in una cognitio che s’incentra sull’apprezzamento della personalità del condannato, piuttosto che sulla ricostruzione del fatto-reato, deve altresì rilevarsi come il disordinato e costante imperversare di interventi sulla disciplina contenuta nella l. 354/1975 abbia finito per stravolgerne l’originaria armonia, dando luogo a effetti devastanti tanto dal punto di vista della ricostruzione sistematica quanto sotto il profilo della interpretazione dei singoli istituti. La proliferazione frenetica di regole (che, peraltro, non può ricondursi al solo attivismo del legislatore: basti pensare all’incidenza che in questa materia tradizionalmente assumono le fonti di soft law e, in tempi più recenti, lo spazio guadagnato dalle pronunce della Corte Edu) ha reso, invero, sempre più difficile l’elaborazione di una esegesi uniforme e, anzi, ha favorito una sempre più frequente e intensa attività interpretativa della magistratura di sorveglianza in funzione dichiaratamente “costitutiva” del diritto. Un effetto che, a sua volta, si presenta come amplificato dalla circostanza che la discrezionalità costituisce il naturale corollario dell’intonazione fortemente rieducativa (almeno in teoria) dei benefici penitenziari in generale e delle misure alternative in particolare. In effetti, è stato acutamente rilevato come non possa che competere al giudizio in qualche modo tecnico della magistratura di sorveglianza l’adeguamento caso per caso del trattamento sanzionatorio alle caratteristiche personologiche dell’autore: non solo quanto all’an della misura, ma anche con riguardo ai suoi contenuti, le prescrizioni, la durata e l’esito finale. E’ innegabile, dunque, che il concorrere di questi fattori abbia reso particolarmente complicato, tanto per l’operatore quanto per lo studioso, il disegno di individuare le corrette traiettorie interpretative utili per orientarsi nel contesto di un sistema normativo perennemente in divenire e costruito per ispirare la decisione giudiziaria a una logica “discrezionale-personalistica”. In questo contesto, ne esce particolarmente acuito il problema della conoscibilità della giurisprudenza di merito: l’inesistenza di una raccolta aggiornata rende, infatti, sostanzialmente impossibile ricostruirne gli orientamenti. Ciò produce ricadute negative non solo sui condannati (i quali sono costretti, per così dire, a “muoversi al buio” nel momento in cui si propongano di avanzare un’istanza o di discutere di un certo provvedimento), ma anche sugli stessi magistrati di sorveglianza, che, proprio per la difficoltà di conoscere gli indirizzi eventualmente emersi in altre sedi (una difficoltà – come è stato efficacemente rilevato – amplificata dalla peculiare frammentazione degli uffici sul territorio e dall’esiguità dei relativi organici), si ritrovano, in molti casi, a vedersi totalmente precluso un effettivo confronto sulle prassi interpretative da adottare.
Stando così le cose, a uscirne significativamente pregiudicata è la garanzia della prevedibilità, un canone che è declinabile, secondo la nota giurisprudenza della Corte Edu, alla stregua di un vero e proprio “sotto-criterio” del principio di legalità. E la stessa Corte di Strasburgo ha avuto, altresì, occasione di affermare (sentenza Del Rio Prada c. Spagna) che anche la materia dell’esecuzione penale è assoggettata alle garanzie previste dalla Convenzione per quanto riguarda i canoni della prevedibilità e dell’affidamento, quali corollari del principio di irretroattività in malam partem.
L’idea di por mano a una banca dati online della giurisprudenza di sorveglianza non sottintende affatto – è bene chiarirlo subito – il disegno di pervenire ad attribuire un vero e proprio valore ‘normativo’ alla predizione decisoria, quasi a voler dar vita a un sistema di giustizia amministrata da giudici robot. Una simile prospettiva si porrebbe chiaramente in rotta di collisione con quel modello “discrezionale-personalistico” su cui il legislatore ha inteso modulare il rapporto fra la persistente centralità della detenzione e l’innovativa idea della risocializzazione: un’esaltazione della discrezionalità che proprio in questo momento storico sembra conoscere un nuovo impulso sotto la spinta di una giurisprudenza della Corte costituzionale sempre più propensa a demolire la gran parte di presunzioni ostative e di eccezioni, di cui il legislatore ha disseminato la disciplina di quel modello.
Impegnandosi nell’impresa di – quanto meno – gettare le basi per la creazione di un database delle decisioni di merito, ci si propone, piuttosto, di favorire la soluzione delle questioni connesse al principio di legalità che scaturiscano dalla imprevedibilità delle decisioni della magistratura di sorveglianza: un fenomeno che potrebbe quanto meno essere smussato, per l’appunto, rendendo agevole la conoscibilità dei precedenti che possono consentire all’interprete di individuare la regola o il criterio interpretativo che il diritto vivente sia orientato ad applicare secondo i canoni di normalità e uniformità. Anche attraverso questa strada ci pare passi l’idea che debba considerarsi violata la base legale della disciplina penale (nella sua declinazione in termini di prevedibilità) tutte le volte in cui un’interpretazione del tutto innovativa rispetto ad un consolidato orientamento della giurisprudenza o un imprevedibile revirement determinino effetti sfavorevoli per il condannato. La raccolta, la classificazione e la pubblicazione della giurisprudenza di merito, nel settore dell’esecuzione penale, deve essere intesa come funzionale a rendere omogenee e quindi prevedibili le decisioni della magistratura di sorveglianza, senza però con ciò ipotizzare di svilirne il ruolo o di metterne in discussione l’indipendenza. Lungi dall’imporre l’uso di ‘predizioni’ algoritmiche, che pretendano di indurre i giudici a confermarle, supinamente adeguandovisi, la banca dati è da noi concepita, piuttosto, come strumento per l’affermazione di un «diritto certo e stabile». La cifra della sua finalità ultima, in altre parole, è quella di rendere tangibile, nell’applicazione della legge (e, dunque nella costruzione di un «diritto vivente»), quel principio di eguaglianza che è sotteso alla vita democratica di una società civile, per cui la prevedibilità delle decisioni è alla base di un trattamento uniforme dei cittadini dinanzi al giudice.