11 Settembre 2023

L’UEPE ED ALTRI ATTORI ISTITUZIONALI: PROSPETTIVE DI UNA FUTURIBILE GIUSTIZIA DI COMUNITA’

A cura di Guglielmo Sacco (Università di Pisa)

Premessa: gli Uffici di Esecuzione Penale Esterna oggi

La legge 354 del 1975 ha sancito la nascita degli uffici preposti a gestire le pene alternative alla detenzione; tali uffici si chiamavano fino al 2005 Centri di Servizio Sociale per Adulti (CSSA). La Legge 154/2005 ne ha modificato il nome, attualmente denominati Uffici di Esecuzione Penale Esterna (UEPE).

Il ruolo fondamentale dell’UEPE va, innanzitutto, inquadrato nell’ambito del suo contesto istituzionale di riferimento e a seguito del Regolamento di riorganizzazione del Ministero della Giustizia, entrato in vigore a partire dal 14 luglio 2015. Quest’ultimo ha operato una riunificazione dell’esecuzione penale per adulti e per minori sotto la nuova Direzione Generale per l’Esecuzione Penale Esterna e di Messa alla Prova costituita presso il nuovo Dipartimento della Giustizia Minorile e di Comunità.

La struttura organizzativa del neo-Dipartimento Giustizia Minorile e di Comunità allo stato attuale è così composto:

  • Uffici Capo dipartimento
  • Direzione personale, risorse e attuazione provvedimenti
  • Direzione esecuzione penale esterna e di messa alla prova
  • Centri per la giustizia minorile
  • Uffici interdistrettuali esecuzione penale

Questi ultimi sono undici in tutta Italia, ed il loro acronimo è UIEPE (Ufficio Interdistrettuale Esecuzione Penale Esterna). Gli uffici interdistrettuali gestiscono inoltre gli ULEPE (Ufficio Locale Esecuzione Penale Esterna) e gli UDEPE (Ufficio Distrettuale Esecuzione Penale Esterna).

Ogni UEPE è suddiviso in varie aree: area amministrativa e di segreteria, area tecnica, area contabile, a cui deve aggiungersi l’area sicurezza, composta dalla Polizia Penitenziaria.

 

I loro compiti sono dettati dalla norma contenuta nell’art. 72 della legge del 1975, il quale afferma che “[g]li uffici locali di esecuzione penale esterna dipendono dal Ministero della giustizia e la loro organizzazione è disciplinata con regolamento adottato dal Ministro ai sensi dell’articolo 17, comma 3, della legge 23 agosto 1988, n. 400, e successive modificazioni. Gli Uffici:

  1. svolgono, su richiesta dell’autorità giudiziaria, le inchieste utili a fornire i dati occorrenti per l’applicazione, la modificazione, la proroga e la revoca delle misure di sicurezza;
  2. svolgono le indagini socio-familiari e l’attività di osservazione del comportamento per l’applicazione delle misure alternative alla detenzione ai condannati;
  3. propongono all’autorità giudiziaria il programma di trattamento da applicare ai condannati che chiedono di essere ammessi all’affidamento in prova e alla detenzione domiciliare;
  4. controllano l’esecuzione dei programmi da parte degli ammessi alle misure alternative, ne riferiscono all’autorità giudiziaria, proponendo eventuali interventi di modificazione o di revoca;
  5. su richiesta delle direzioni degli istituti penitenziari, prestano consulenza per favorire il buon esito del trattamento penitenziario;
  6. svolgono ogni altra attività prescritta dalla legge e dal regolamento”.

L’ufficio EPE è prevalentemente composto dalla figura professionale dell’assistente sociale, che collabora insieme a Polizia Penitenziaria, esperti psicologi, criminologi, e negli ultimi tempi educatori, al fine di adempiere alla mission istituzionale; ha competenza territoriale ed è presente nello stesso distretto dove è collocato l’ufficio del Magistrato di sorveglianza. Di fatto, l’Ufficio si occupa di seguire i soggetti condannati definitivi e quindi in esecuzione della pena, siano essi detenuti – nel qual caso esplica attività di consulenza su richiesta delle direzioni degli istituti, siano essi ammessi alle misure alternative alla detenzione. Su richiesta del Tribunale di sorveglianza e/o del Magistrato di sorveglianza viene svolta attività di consulenza nei riguardi di condannati in via definitiva con interventi professionali, elaborando relazioni socio familiari che contribuiscano alla conoscenza del soggetto e del contesto sociale sia di provenienza che di appartenenza. Tali strumenti contribuiscono alla conoscenza della persona per le decisioni che la Magistratura di sorveglianza è chiamata a prendere: con una metafora, si può affermare che gli UEPE svolgono la funzione di “occhi e orecchie” della Magistratura di sorveglianza all’esterno del carcere. All’UEPE è altresì delegata la competenza di aiuto e controllo sui soggetti condannati in via definitiva ed ammessi a misure alternative alla detenzione (affidamento in prova al servizio sociale, detenzione domiciliare sia ordinaria che ai sensi della l. 199/10). Negli ultimi anni, con l’approvazione di numerose leggi in materia di esecuzione alternativa della pena, i compiti previsti per detti Uffici sono andati aumentando e sono stati spesso previsti in leggi disomogenee individuando competenze varie nel campo dell’esecuzione della pena, tuttavia senza un progetto organico, contribuendo così a creare confusione sulle competenze affidategli e snaturando in parte la ratio originale delle competenze stesse. Il legislatore ha previsto, infatti, il coinvolgimento dell’Ufficio EPE nel controllo sull’esecuzione del lavoro di pubblica utilità comminato come sanzione sostitutiva da parte del giudice per i reati previsti per infrazione al codice della strada: in particolare, gli artt. 186 e 187 C.d.S. dicono che gli organi di controllo sull’esecuzione degli l.p.u. sono l’UEPE ovvero l’Ufficio di P.S. del luogo di esecuzione della pena o, in mancanza, il Comando dei C.C; ancora, per i fatti previsti dall’art. 73 c. 5 dpr 309 del 1990 incaricato al controllo è direttamente l’UEPE mentre, per il caso previsto dall’art. 165 c.p. in materia di sospensione condizionale della pena, preposto al controllo è l’Ufficio di P.S. del luogo di esecuzione della pena o, in mancanza, il Comando dei C.C. (art. 59 D.Lgs. 274 del 2000 richiamato dall’art. 18 bis disp. att. c.p.). Da ultimo, in materia di pene sostitutive, l’art. 63 della l. 689/1981 statuisce al III° comma che “[c]on la sentenza o con il decreto penale, il giudice incarica l’ufficio di esecuzione penale esterna e gli organi di polizia indicati al primo comma di verificare l’effettivo svolgimento del lavoro di pubblica utilità. L’ufficio di esecuzione penale esterna riferisce periodicamente al giudice che ha applicato la pena sulla condotta del condannato e sul percorso di reinserimento sociale”.

Come si può notare, le norme prese in esame statuiscono che il controllo, a parere del giudice, possa essere dato indifferentemente alle forze dell’ordine o all’Uepe territorialmente competente, creando così molta confusione sulle competenze e sulle modalità operative da adottare per effettuare tale controllo. Tale e tanta genericità ha dato luogo ad una attuazione molto disomogenea del dettato normativo nei vari contesti territoriali, con la conseguenza che oggi – spesso – si assiste ad una duplicazione degli interventi da parte degli organismi coinvolti. Gli articoli di legge infatti non specificano in quali casi, trattandosi di Uffici diversi per compiti e mansioni, dovrebbero intervenire; accade, così, che l’intervento assuma un carattere di mero controllo amministrativo dell’esecuzione di quanto previsto in sentenza.

Con l’approvazione della Legge n. 67 /2014 il legislatore ha fatto un importante passo, vincolando la concessione della “messa alla prova” allo svolgimento di un lavoro di pubblica utilità, e riconoscendo un ruolo centrale all’UEPE, che dovrà prevederlo nel programma di trattamento concordato con l’interessato, e successivamente inviato al giudice per la decisione su tale istituto. Il programma di trattamento dovrebbe essere accompagnato da una relazione socio-familiare il più ampia possibile per far conoscere il contesto sociofamiliare e lavorativo del soggetto, nonché considerazioni complessive sulla possibilità di adesione del soggetto alla misura richiesta. La legge prevede inoltre per l’UEPE compiti di controllo sullo svolgimento sia del beneficio che del lavoro sociale e I’obbligo di redigere relazioni periodiche sulla sua esecuzione da inviare al giudice per le deliberazioni conseguenti1.

 

1.  Lo sguardo ad un possibile futuro

Sulla base di tutto quanto affermato sopra, degli sviluppi normativi avvenuti negli anni nonché dell’attuale assetto organizzativo degli Uffici di Esecuzione Penale Esterna, è possibile tracciare una linea di direzione di quelle che potrebbero essere le evoluzioni del sistema penale italiano nei prossimi anni.

In particolare, è ravvisabile sempre più – anche in ottica europea – una spinta verso una massiccia decarcerizzazione di numerosi reati, i quali vengono via via a gravitare in misura sempre maggiore non più nell’orbita dell’esecuzione intra moenia, ma, al contrario, ricadono nella sfera di competenza delle “pene” da scontarsi all’esterno; il tutto, per una serie di motivi che sono già stati elencati all’interno dell’elaborato: una maggior possibilità di reinserimento nel circuito sociale, un minor tasso di sovraffollamento degli istituti, un minor rischio di incappare in nuovi reati, un minor dispendio di energie economiche da parte dello Stato.

(1 G. PIERONI, S. ROLLINO, L’esecuzione penale esterna e la messa alla prova degli adulti, Firenze, 2018, p. 43 e ss.)

Su dette osservazioni, è lecito ipotizzare ancora un progressivo aumento dell’impiego di misure extracarcerarie, le quali – come visto – si dimostrano sia strumenti di politica penale in grado di dare una maggiore attuazione al comma III° dell’art. 27 Cost., sia strumenti di buona amministrazione e persino di propaganda elettorale laddove, ovviamente, attuati con perizia e resi visibili alla popolazione, .

Tra queste misure, i lavori di pubblica utilità appaiono – ad avviso di chi scrive – lo strumento centrale nei confronti di tutte le possibili riforme future che riguardano le pene di media-breve durata, in quanto costituiscono un valido meccanismo penale che favorisce il reinserimento, l’utilizzo di forza lavoro al servizio della comunità, il basso costo (laddove – si ripete – opportunamente servite ed organizzate) delle attività, il coinvolgimento delle istituzioni e della cittadinanza nell’attività di rieducazione secondo il senso più completo della giustizia di comunità.

In realtà, nei fatti questa misura assume già un ruolo centrale nell’esecuzione penale esterna, in quanto molteplici istituti identificano l’LPU come contenuto essenziale della misura, e portano il soggetto rieducando a compiere attività utili per sé stesso e la comunità. Ciò che manca è probabilmente una razionalizzazione ed una formale centralizzazione dello stesso, reso indipendente da meccanismi processuali e sanzionatori che ne fanno da contenitore.

La riforma Cartabia ha costituito un primo importante passo in avanti in questo senso, in quanto ha reso il lavoro di pubblica utilità una pena sostitutiva del carcere e, quindi, una vera e propria “pena” indipendente rispetto ad altri istituti; ciò che manca è l’eliminazione della sua dimensione “sostitutiva”, ovvero la possibilità per il giudice di condannare al lavoro di pubblica utilità senza passare né da meccanismi sostitutori né dal consenso del reo.

In aggiunta a detta prospettiva, dovrebbe accompagnarsi anche un generale ripensamento dei ruoli ed una generale modifica delle istituzioni che presidiano i suddetti meccanismi. Più specificamente, occorrerebbe presidiare l’esecuzione delle pene con un sistema di introduzione, accompagnamento ed accoglienza verso l’esecuzione dei lavori di pubblica utilità che possa essere in grado di raccogliere le istanze del reo e della comunità in maniera organizzata ed efficiente, con una successiva stabilizzazione dei presìdi strutturali e delle attività da farsi svolgere a persone che scontano una pena.

Laddove questi canali organizzativi fossero ben tracciati, si giungerebbe più celermente ad un reinserimento nella società di persone che non soltanto avrebbero scontato la loro pena secondo il dettato normativo, ma che avrebbero anche “pagato il loro debito con la giustizia” con effettivo riscontro da parte della comunità, con maggior visione da parte di quest’ultima dell’utilità del sistema punitivo non in un’ottica prettamente retributiva ma, altresì, in un’ottica riparativa.

2.  Assetto organizzativo e funzionale (auspicati) degli UEPE di domani

Dovendo delineare un nuovo assetto organizzativo delle istituzioni per un nuovo modello di giustizia di comunità basato essenzialmente sul lavoro di pubblica utilità per le pene di breve e media durata, gli Uffici di Esecuzione Penale Esterna verrebbero ad assumere un ruolo di indirizzo e di veicolo rispetto alle istanze dei soggetti condannati, nonché – laddove le forze in campo e gli investimenti in termini di unità di polizia penitenziaria appositamente dedicata fossero necessari – un ruolo di coordinamento e controllo degli enti ospitanti i lavoratori in esecuzione penale. In altre parole, occorrerebbe l’inquadramento degli UEPE quali vere e proprie agenzie di probation, le quali assumerebbero – come di fatto sta già avvenendo – un ruolo centrale nelle dinamiche istituzionali delle politiche penali del Paese.

Per poter realizzare questa centralità, tuttavia, vi è in primo luogo la necessità di una riforma dell’assetto organizzativo all’interno dello stesso Ministero della Giustizia. Più specificamente, dal 2015 è noto come gli UEPE siano confluiti all’interno del Dipartimento di Giustizia Minorile e di Comunità (DGMC), e si vedano affidata una direzione generale specifica del settore, con un totale rimando alla direzione generale del personale, delle risorse e per l’attuazione dei provvedimenti del giudice minorile (cd. DG PRAM) per tutte le questioni amministrative e di gestione delle risorse e del personale. Ciò significa che, nonostante ormai in Italia il sistema delle pene miri naturalmente a concentrarsi sulle pene ad extra e sulla giustizia di comunità e, come visto in precedenza, nei numeri abbia già superato l’istituzione carceraria, la struttura amministrativa ad essa dedicata continua ad essere una semplice costola del più ampio apparato dedicato ai minori autori di reato2. Per quanto l’esecuzione penale nei confronti dei minorenni sia una branca importantissima e delicatissima del sistema, il rapporto tra utenti gestiti, risorse disponibili e strutture dedicate non giustifica la relazione organizzativa al momento in vigore: basti pensare che, a fronte delle 81.515 persone in carico agli UEPE, la giustizia minorile presenta in carico soltanto 12.847 ragazzi, di cui soltanto 1270 ospitati in IPM, comunità private, ministeriali o centri di prima accoglienza3.

Considerato che un nuovo dipartimento dedicato interamente ad una branca dell’esecuzione penale costituirebbe una sovrastruttura (e una spesa) sovrabbondante rispetto alle reali esigenze di sistema, ciò che si propone per dare reale centralità al sistema di esecuzione penale esterna è una ricollocazione dei servizi di gestione dei minori all’interno del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, con una direzione generale ad hoc, e un Dipartimento interamente dedicato all’Esecuzione Penale Esterna, con strutture interamente dedicate a questo settore, alle sue risorse e al suo personale.

Così facendo, l’EPE del domani – pensata come l’agglomerato di agenzie di probation incentrate sui lavori di pubblica utilità – potrebbe servire la giustizia di comunità al meglio, rendersi indipendente da strutture dedicate ad altro e cedere il ruolo di subalternità che la hanno sempre relegata ai margini della politica penale.

(2 Da molte parti, anche il passaggio dal DAP al DGMC è stato avvertito come una perdita di appoggio forte per gli UEPE, in particolare perché la più rodata struttura amministrativa che gestisce le carceri in Italia garantiva una chiarezza normativa e un inquadramento burocratico che non si sono riscontrati nel più giovane Dipartimento dedicato alla giustizia minorile.)

(3 Fonte: www.centrostudinisida.it, dati aggiornati al 31 luglio 2023.)

3.  Gli enti statali, parastatali e locali

Nelle dinamiche future, uno dei ruoli che senza dubbio andrà potenziato sarà quello degli enti statali, parastatali e locali.

Dal punto di vista normativo e con riguardo alle convenzioni, il D.M. 26 marzo del 2001 stabilisce che «l’attività non retribuita in favore della collettività è svolta sulla base di convenzioni da stipulare con il Ministero della giustizia o, su delega di quest’ultimo, con il Presidente del tribunale, nell’ambito e a favore delle strutture esistenti in seno alle amministrazioni, agli enti o alle organizzazioni indicati nell’art. 1, comma 1. Le convenzioni possono essere stipulate anche da amministrazioni centrali dello Stato con effetto per i rispettivi uffici periferici.

Nelle convenzioni sono indicate specificamente le attività in cui può consistere il lavoro di pubblica utilità e vengono individuati i soggetti incaricati, presso le amministrazioni, gli enti o le organizzazioni interessati, di coordinare la prestazione lavorativa del condannato e di impartire a quest’ultimo le relative istruzioni.

Nelle convenzioni sono altresì individuate le modalità di copertura assicurativa del condannato contro gli infortuni e le malattie professionali nonché riguardo alla responsabilità civile verso i terzi, anche mediante polizze collettive. I relativi oneri sono posti a carico delle amministrazioni, delle organizzazioni o degli enti interessati».

Ad oggi, nonostante gli enti statali, parastatali e locali siano assai numerosi e costituiscano un ricco bacino di accoglienza per i soggetti in esecuzione penale e per lavori di pubblica utilità, non si ha una disponibilità generale su tutto il territorio nazionale, ma soltanto un coinvolgimento a macchia di leopardo4 a seconda delle realtà territoriali, delle disponibilità a seguire i progetti e dell’intraprendenza personale dei singoli funzionari adibiti alle politiche sociali. Ciò comporta una diversa ripartizione delle possibilità di reinserimento, di progettualità e di coinvolgimento della comunità nel circuito rieducativo, con una conseguente forte sperequazione tra le varie zone.

(4 Il sito del Ministero della Giustizia ospita una sezione apposita dove sono raccolte tutte le convenzioni tra i vari Tribunali e gli enti locali ai sensi degli artt. 54 del D.Lgs 28 agosto 2000 n. 274 e 2 del D.M. 26 marzo 2001 nonché dell’art. 165 C.P.)

In un’ottica futura, sarebbe auspicabile non lasciare alla libertà dei singoli enti la possibilità di ospitare soggetti per lavori di pubblica utilità; al contrario, sarebbe opportuno l’inserimento di una norma che li obblighi a rendersi parte attiva della giustizia all’interno della comunità che rappresentano, ovviamente nei limiti delle loro possibilità di accoglimento e di gestione delle attività.

A fronte di questo, rimarrebbero in capo ad essi i ruoli che già oggi gli sarebbero propri, ovvero quelli di committente nei confronti delle agenzie di probation/UEPE, di finanziatore di progetti tramite una diretta partecipazione ad essi o tramite coprogettazione, di datore di lavoro e di decisore pubblico per le specificità delle attività.

 

4.  Il Terzo Settore e privato sociale

Il progressivo ridimensionamento del sistema di welfare pubblico come lo abbiamo conosciuto fino al secolo scorso ha già avviato, nel tempo presente, una inevitabile rivisitazione degli attori coinvolti, indipendentemente dalle valutazioni di merito sul processo. Gli interventi a favore delle persone sottoposte a provvedimenti dell’Autorità Giudiziaria hanno visto negli ultimi decenni uno spostamento del baricentro dal Servizio Pubblico alla Società Civile. Questo processo nasce dalla concomitanza di due fattori:

  • da un lato il processo di depauperamento delle risorse pubbliche ha “costretto” a cercare altre forme di sostegno per questo target di svantaggiati, prima attraverso forme più volontaristiche di aiuto e poi tramite una progressiva strutturazione di interventi del Terzo Settore5.
  • dall’altro lato temi che prima erano considerati di esclusiva competenza della Amministrazione Penitenziaria pubblica (la gestione del sistema della esecuzione della pena) sono sempre più divenuti temi dai quali la cosiddetta società civile non può più esimersi, se non altro per la presa di coscienza che il tema della inclusione sociale dei detenuti è un tema che interessa tutta la comunità e non solo gli “addetti ai lavori”. Appare infatti ormai assodato che il tema della inclusione sociale di persone ristrette può trovare soluzione (positiva) solo se la intera comunità se ne appropria in tutte le sue forme: dagli addetti ai lavori (forze di polizia e servizi sociali), ai volontari, dalla Cooperazione Sociale alle aziende profit (concetti legati alla Responsabilità Sociale di Impresa); le risposte vanno individuate a tutti i livelli. Inoltre, il Terzo Settore oggi gode di un maggiore livello di specializzazione, per cui una risposta efficace ai problemi posti dalle persone sottoposte a provvedimenti dell’Autorità Giudiziaria deve essere costruita su una rete di soggetti che concorrono ognuno per la propria peculiare competenza. Negli ultimi decenni infatti siamo passati da una visione più “artigianale” della proposta di percorsi di inclusione sociale, ad una impostazione per cui nello stesso mondo no profit si sono sviluppate delle competenze specialistiche; ne è dimostrazione il fatto che i bandi a cui il III Settore risponde chiedono sempre più equipe formate da figure specialistiche e certificate (es: tecnico delle riabilitazione psichiatrica, psicologo del lavoro, infermiere di rete). Anche alla luce dello stato dell’arte attuale, il terzo settore costituirà nel futuro un importante bacino di risorse per il sistema penale. Infatti, molti dei lavori di pubblica utilità verranno ad essere affidati in misura crescente a cooperative, imprese sociali ed enti in grado di allocare le attività dei soggetti in esecuzione penale a favore della comunità.

 

(5 Dal D.lgs del 3 Luglio 2017 n. 117 “ Codice del Terzo Settore – art 4: “Sono enti del Terzo settore le organizzazioni di volontariato, le associazioni di promozione sociale, gli enti filantropici, le imprese sociali, incluse le cooperative sociali, le reti associative, le società di mutuo soccorso, le associazioni, riconosciute o non riconosciute, le fondazioni e gli altri enti di carattere privato diversi dalle società costituiti per il perseguimento, senza scopo di lucro, di finalità civiche, solidaristiche e di utilità sociale mediante lo svolgimento di una o più attività di interesse generale in forma di azione volontaria o di erogazione gratuita di denaro, beni o servizi, o di mutualità o di produzione o scambio di beni o servizi, ed iscritti nel registro unico nazionale del Terzo settore.” )

 

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