Da alcuni anni il tema dell’uso legittimo della forza fisica da parte della polizia penitenziaria all’interno degli istituti ha cominciato ad attirare una ben maggiore attenzione rispetto al passato da parte delle agenzie istituzionali.
La questione, come è noto, investe tutte le forze di polizia e se si vogliono definire dei momenti di cambio di passo sulla sua analisi, ritengo che i più significativi siano i fatti del G8 di Genova del 2001 e per la polizia penitenziaria in particolare i pestaggi avvenuti nella casa circondariale di Sassari nell’aprile del 2000.
Una serie di inchieste penali di questi ultimi anni sulle carceri italiane, alcune ormai molto note all’opinione pubblica, come nel caso di Santa Maria Capua Vetere degli inizi di Aprile del 2020, impongono al sistema penitenziario e a tutti gli operatori che ne fanno parte la necessità di mettere oggi al centro delle proprie attenzioni non solo le derive conseguenti ad un uso illecito della forza fisica, ma più complessivamente di analizzare ed intervenire sull’importante aumento dei tassi di violenza negli istituti penitenziari.
È necessario innanzitutto focalizzare che l’aumento di tutta evidenza dei casi di comportamenti violenti da parte di detenuti, ed in particolare l’aumento esponenziale di casi di aggressione al personale, soprattutto poliziotti penitenziari, medici ed infermieri, non potrà mai giustificare un aumento dell’uso della forza fisica senza controlli e limiti. Sotto questo aspetto la fattispecie del reato di tortura, introdotta con l’art.613 bis c.p. nel 2017, aggiunge ma non esaurisce sul dibattito in corso nel paese e nelle aule penali, poiché anche senza l’emersione della tortura si pone il problema di scongiurare condotte violente da parte degli operatori. Inserisco nella discussione il tema delle aggressioni al personale da parte dei detenuti non certo per creare degli alibi a favore di chi ha fatto un uso illecito della forza fisica, ma perché con concretezza e lucidità è necessario circoscrivere il campo di indagine, al fine di ottenere nel tempo due risultati: il corretto e sicuro operare del personale ed il miglioramento della qualità della vita in carcere per chi ci vive e per chi ci lavora.
Infatti, i casi oggetto di indagine penale, ma anche la più ampia casistica negli anni di situazioni che possiamo considerare di pericolo, ci dicono che le situazioni a rischio sono quelle in cui il poliziotto penitenziario deve bloccare una condotta violenta o resistente oppure quando dopo queste condotte subentra, a freddo, uno spirito di…… vendetta? Riscatto? La voglia di superare la frustrazione? In questo secondo caso la evidente violazione dei propri doveri sarà lasciata alle valutazioni di carattere penale e disciplinare. Resta il problema per la governance del sistema penitenziario e per tutti coloro che hanno in esso ruoli di responsabilità, di ragionare sul come e perché non si riesce ad intercettare, meglio ancora a scongiurare la frustrazione, la rabbia e la logica del branco che ha caratterizzato situazioni più estreme come quella di Santa Maria Capua Vetere.
Non ho mai incontrato poliziotti penitenziari che picchiavano detenuti perché avevano turni stressanti, perché c’era poco personale, perché non gli erano state autorizzate le ferie. Se si va “a freddo” a colpire delle persone, ciò accade perché la logica del branco assorbe e finalizza un modo distorto di vivere quella professione. Allora bisogna lavorare seriamente per combattere quella che è una mentalità distorta, focalizzando i contesti lavorativi, conoscendo gli operatori sul campo, esaminando l’efficacia della catena di comando e, prima di tutto, aprendo un confronto a livello nazionale con tutte le componenti coinvolte nel sistema penitenziario.
Invece sul primo tipo di casi che evocavo (l’intervento davanti a condotte violente) è necessario coniugare i principi e le esigenze espresse dalle norme con i bisogni e le domande che esprimono gli operatori, perché noi dobbiamo avere la lucidità di fare chiarezza al personale su quale tipo di comportamenti bisogna orientarsi perché si possa stare all’interno del recinto dell’uso legittimo della forza fisica. Infatti, quel che appare oggi è che non pochi operatori temono di intervenire con la forza, pur sussistendo i presupposti giustificativi perché comunque l’intervento li chiamerebbe a possibili responsabilità penali. Alla lamentata mancanza di “certezze” si affianca la visione pessimistica dell’introduzione del reato di tortura che viene visto come una fattispecie incriminatrice che troppe volte può coinvolgere un poliziotto penitenziario non animato dalla volontà di commettere atti persecutori nei confronti della persona detenuta.
Su queste considerazioni si può essere critici quanto si vuole ma è necessario tenere conto nell’analisi di tutto il contesto. C’è un elemento di assordante novità rispetto ai decenni passati: il significativo aumento in carcere di detenuti portatori di un disagio psichico, più o meno marcato, che si esprime spesso con agiti violenti anche nei confronti degli operatori, con la conseguenza che più spesso saranno necessari interventi di forza da parte del personale.
Proviamo a partire dagli elementi normativi e giurisprudenziali per azzardare dei percorsi possibili mirati alla crescita di un sistema nel rispetto dei principi costituzionali.
L art. 41 o.p., le Regole Penitenziarie Europee (nn. 64 e 65) e la ricca giurisprudenza della CEDU oltre che dei giudici di merito hanno fissato come un mantra i due requisiti di necessità e proporzione nel caso concreto di intervento con l’uso della forza.
La sussistenza dei due elementi va valutata nel “caso concreto”, così come è stato ribadito in diverse pronunce della CEDU (tra tutte v. il caso Sarigiannis c. Italia, sent. 5.4.2011).
Quando per voce delle organizzazioni sindacali della polizia penitenziaria si richiede che l’amministrazione penitenziaria fissi le cc.dd. “regole di ingaggio” con ogni probabilità si manifesta l’angoscia derivante dalla valutazione che può intervenire nel caso concreto. Ogni singola vicenda fa storia a sé: in quel caso l’intervento con l’uso della forza era necessario? Quindi, era preclusa o già esaurita ogni altra via? La necessità sussisteva perché erano in pericolo altre persone da tutelare? Eravamo al punto di dover agire sotto lo scudo della scriminante ex art. 53 c.p.?
Se utilizziamo la norma penale appena citata dobbiamo ritenere che gli operatori siano stati “costretti” ad utilizzare la forza come extrema ratio, ed ancora una volta l’esame delle concrete circostanze del caso permetterà di capire se il requisito della necessità sussisteva.
Proprio perché ogni situazione è una storia a sé invocare le regole di ingaggio che eliminino i rischi di valutazione dell’operatore non può condurre ai risultati sperati (se succede A bisogna adottare il comportamento B, e così di seguito).
Questo vale a maggior ragione per il requisito della proporzione dell’intervento: il grado di forza utilizzato è corretto rispetto alla violenza o alla resistenza da vincere? Il tempo di coazione fisica è stato troppo elevato? Quanti operatori sono stati impegnati per bloccare un singolo detenuto?
Valutare la corretta proporzione dell’intervento vede in gioco oggi rispetto al passato la possibile emersione del reato di tortura: una condotta sproporzionata può essere indice di una prolungata sottoposizione ad azioni idonee a “causare sofferenze fisiche e mentali” (v. sent. Sarigiannis) e potranno rientrare nella fattispecie ex art.613 bis c.p.
Azioni necessarie possono essere non proporzionate all’evento, e ancora una volta il malinteso senso delle “regole di ingaggio” non farà comprendere che le condotte vanno contestualizzate sempre. La presenza sempre più massiccia degli impianti di telesorveglianza nei vari punti degli istituti costituisce oggi uno strumento di garanzia sia per chi ha operato correttamente che per i detenuti che siano stati sottoposti ad un trattamento illecito, ma anche sulla lettura dell’evento non si possono costruire degli schemi.
Non si può non sottolineare che lo schema previsto dalle norme evoca un intervento teso a “bloccare” la persona violenta o resistente, ma non poche volte la casistica ci parla di un corpo a corpo che può essere ingaggiato dal detenuto violento con l’operatore; accade che le circostanze concrete non consentano di adottare semplicemente tecniche di autodifesa (il detenuto potrebbe essere su questo ben più attrezzato del poliziotto) ma costringono ad una lotta o ad uno scambio di pugni. Se l’operatore avrà atterrato il detenuto con un pugno, le conseguenti lesioni potranno essere valutate all’interno della proporzione dell’intervento.
Anche per questi motivi al personale bisogna richiedere sempre una puntualità assoluta nella narrazione dei fatti. La sottoposizione a visita medica del detenuto su cui si è intervenuti, così come le eventuali visite mediche agli operanti portano all’esame in parallelo dei referti medici. Il loro contenuto dovrà essere altrettanto puntuale, perché la concretezza del caso richiede, per quanto possibile, la massima ricchezza di elementi di valutazione, a maggior ragione quando non saranno disponibili delle immagini perché i luoghi dove è accaduto l’intervento non erano videosorvegliati.
Tutto questo è un possibile racconto, appena accennato, o più ancora un’evocazione di ciò che può accadere in un preciso momento della vita dell’istituto, ma dietro a questo c’è la formazione del personale, l’apprendimento quotidiano e continuo per coniugare i principi con la propria operatività, l’incremento del “saper fare” dei più giovani attraverso la saggezza e l’esperienza dei poliziotti penitenziari più anziani e preparati. Per ottenere cosa? Il miglioramento della qualità della vita di tutti. Più legalità, più chiarezza nei comportamenti, ma anche la corretta assunzione delle proprie responsabilità quando si devono fare delle scelte (la necessità dell’intervento…) in questa fase prolungata così critica del sistema penitenziario a medio e a lungo termine daranno risultati importanti
Carmelo Cantone