La sentenza della Cassazione in oggetto trae origine dall’ordinanza con cui il Tribunale di Sorveglianza di L’Aquila rigettava il reclamo proposto contro l’ordinanza del Magistrato di sorveglianza che aveva respinto la richiesta presentata dal medesimo di accedere all’istituto dei permessi premio. Conformemente ai giudici di merito, la Cassazione ritiene, invero, che un’adeguata valorizzazione della riscontrata <<regolare condotta carceraria>> e della <<dichiarazione incondizionata di dissociazione>> non si presti a “compensare” la mancanza di <<una effettiva presa di distanza>> dal <<contesto di criminalità organizzata>> e la <<carente rivisitazione critica dei gravissimi reati commessi>>.
La decisione del magistrato di sorveglianza. Il giudice monocratico, ritenuta – in conformità alla sentenza 253/2019 della Corte costituzionale – l’ammissibilità dell’istanza, ebbe infatti a respingerla nel merito, in considerazione, fra l’altro, dei seguenti elementi:
. il provvedimento di proroga del regime speciale di cui all’art. 41-bis o.p. (confermato dal Tribunale di sorveglianza di Roma) cui era appena stato sottoposto il detenuto;
. le informazioni trasmesse dalla Direzione nazionale antimafia e antiterrorismo, da cui emerge(va), da un lato, come egli fosse stato riconosciuto colpevole dei più gravi delitti perpetrati da Cosa nostra (tra cui l’omicidio dell’on. Salvo Lima, la strage di Capaci, la strage di via D’Amelio e gli attentati a Roma e Firenze), e, dall’altro, come fossero da reputarsi tuttora attuali i collegamenti con gli esponenti mafiosi della sua famiglia, nonché la piena operatività del mandamento mafioso di Brancaccio;
. le informazioni trasmesse dalla Procura della Repubblica di Firenze, dalle quali si evince(va) come il detenuto non si fosse reso disponibile a rispondere alle domande rivoltegli dopo aver manifestato il proposito di dissociarsi;
. le informazioni trasmesse dalla Questura di Palermo, alla luce delle quali si poteva riscontrare come una parte dei proventi delle attività estorsive poste in essere sul territorio di Brancaccio dagli esponenti mafiosi della stessa famiglia venissero puntualmente fatti pervenire ai congiunti del detenuto;
. la relazione di sintesi, predisposta dalla equipe della Casa circondariale in cui si trova(va) recluso e da cui risulta(va) come egli non avesse mantenuto sempre una condotta corretta (avendo, anzi, riportato alcune sanzioni disciplinari) e non avesse riconosciuto pienamente la propria responsabilità in ordine ai reati per i quali aveva subito più di una sentenza di condanna in via definitiva.
Il reclamo davanti al Tribunale di sorveglianza di L’Aquila. Proponendo reclamo contro questa decisione, la difesa aveva avuto modo di sostenere, fra l’altro, come il proprio assistito avesse << reciso qualsiasi rapporto con l’esterno, compreso quello con il fratello>>, lamentando altresì che il giudice di prime cure <<non avesse dato il giusto peso nella valutazione alla revisione critica dei trascorsi criminali, culminata nella dichiarazione di dissociazione dal clan di appartenenza>> (oltre che nel conseguimento di una laurea con pieni voti)
Nell’ordinanza, il Tribunale si premurava, anzitutto, di richiamare la duplice condizione imposta dalla Corte cost. (sent. 253/2019) perché possa essere accolta la domanda di permesso premio avanzata da chi abbia scelto di non collaborare con gli organi inquirenti, cioè la non attualità di collegamenti con la criminalità organizzata e l’assenza del pericolo di ripristino di tali collegamenti. Una verifica che deve essere condotta – stando all’insegnamento della stessa Corte – con criteri di particolare rigorosità: la presunzione di pericolosità, infatti, pur avendo perso il carattere dell’assolutezza, deve ritenersi superabile, in particolare quando si tratti di soggetti appartenenti alla criminalità di stampo mafioso, non alla luce della sola condotta carceraria o della mera partecipazione al percorso rieducativo, ma <<soprattutto in forza dell’acquisizione di altri, congrui e specifici elementi>>.
Sulla scorta di questa indicazione, il Tribunale di sorveglianza riteneva di dover prendere in considerazione le seguenti circostanze:
. la manifestazione di indisponibilità a rispondere agli organi inquirenti, dopo la dichiarazione di dissociazione
. il ruolo assolutamente apicale rivestito dal detenuto in seno al mandamento mafioso di Brancaccio e la piena operatività di quest’ultimo (così come attestato da tutte le informazioni trasmesse dagli organi investigativi
. il recente provvedimento di proroga del regime di carcere duro (art. 41-bis o.p.)
. la sola parziale ammissione delle responsabilità per i delitti gravissimi per i quali è stato condannato
. il mantenimento di rapporti con alcuni familiari, a loro volta parimenti coinvolti in logiche associative;
Tutti elementi che il Tribunale ha reputato indici attendibili del rischio concreto e attuale della ripresa dei collegamenti con il gruppo criminale di riferimento da parte del reclamante in caso di fruizione di permessi-premio e ha conseguentemente posto a fondamento della decisione di rigetto del reclamo avanzato dal prevenuto.
Il ricorso per cassazione. Il difensore del ricorrente presentava quindi ricorso per l’annullamento dell’ordinanza emessa dal tribunale di sorveglianza di L’Aquila, denunciando la violazione della disciplina di cui all’art. 30 ter o.p. e il difetto di motivazione della decisione.
Secondo la tesi difensiva, infatti, il detenuto aveva reso dichiarazione incondizionata di dissociazione; aveva, inoltre, sempre mantenuto una condotta regolare all’interno del carcere (tanto da meritare uno “sconto di pena” con la concessione della liberazione anticipata) e si era impegnato nella partecipazione all’offerta trattamentale (come reso palese dal conseguimento della laurea magistrale con il massimo dei voti). Infine, l’assoggettamento al regime speciale di cui all’art. 41-bis o.p. non si presterebbe a essere apprezzato, di per sé, come un fattore di incompatibilità con l’ammissione all’esperienza premiale.
Siffatte argomentazioni, però, non sono sembrate persuasive ai giudici di legittimità, che, con la decisione in oggetto, hanno rigettato il ricorso, ritenendone l’infondatezza. A questa conclusione la Cassazione perviene attraverso una motivazione estremamente concisa, che prende avvio dalla considerazione dei permessi premio come istituto che costituisce <<elemento del trattamento penitenziario>>. Per la sua concessione si impone, dunque, una <<previa valutazione dell’andamento complessivo del percorso riabilitativo>>, al fine di verificarne, <<in relazione ai progressi compiuti e alle prospettive>>, la idoneità a <<contribuire al conseguimento dell’obbiettivo rieducativo>>. E, a siffatto approccio, si sono perfettamente conformati – a parere della Cassazione – i giudici di merito nella vicenda de qua, come è attestato dal percorso motivazionale che ha condotto al rigetto dell’istanza (sulla scorta di un complesso di argomentazioni che, peraltro, si sottraggono a qualsiasi censura in sede di legittimità). A fronte, invero, dei gravissimi reati commessi dal ricorrente, il Tribunale di sorveglianza ha attribuito il giusto rilievo, infatti, alla circostanza che <<non ne era seguita una effettiva presa di distanza>> e, anzi, <<erano stati mantenuti i contatti con i familiari, pure già coinvolti nel medesimo contesto di criminalità organizzata>>. Questi fattori, poi, sono stati opportunamente letti dal Tribunale alla luce della <<carente rivisitazione critica dei gravissimi reati commessi>> e ritenuti, nel loro complesso, indici impeditivi di una <<valorizzazione della pure regolare condotta carceraria e del percorso scolastico>> positivamente intrapreso dal ricorrente.
Di seguito il link con il testo della sentenza della Cassazione:
a cura di Giulia Ricciardi