“Police brutality: un problema solo statunitense?” così intitola il primo dei cinque capitoli che compongono La forza di polizia. Uno studio criminologico sulla violenza, il testo di Roberto Cornelli dedicato all’indagine circa il senso dell’agire di polizia nel contesto italiano.
Se di primo impatto la risposta al quesito sembra immediata e inconfutabile, considerata la sproporzione nel raffronto tra l’entità e la ricorrenza degli eventi di police brutality statunitensi con quelli europei (Cornelli 2020, 3), una più approfondita riflessione circa i fatti che hanno riguardato l’Italia negli ultimi decenni non solo rende tangibile la complessità nel fornire un’adeguata risposta alla domanda posta dall’autore, ma pare al contempo sollevare l’interesse sociologico su più fronti.
Eccezion fatta per il volume sopracitato e per il recente e valido studio di Simone Tuzza (2021) cui si uniscono pochi altri lavori (Bertaccini 2009; Campesi 2009; Fabini 2016; Gargiulo 2015; Palidda 2000, 2021) e cui possono essere aggiunte le analisi di più ampia portata della criminologia critica circa i processi di criminalizzazione (Maculan 2014; Palidda 1999, 2007; Quassoli 1999, 2004), scarna risulta la produzione scientifica italiana che abbia interamente a oggetto i police studies. Nel 2021, l’anno del ventennale dai fatti del G8 di Genova, cui la vicenda di Stefano Cucchi e altri svariati episodi di violenza penitenziaria hanno fatto da intramezzo, si dimostra inesauribile la necessità di fare luce sulle dinamiche e i significati che fanno da sfondo all’uso illegittimo della forza da parte degli agenti, tanto per le strade, quanto nei contesti di privazione di libertà. Che si tratti di eventi avvenuti in società – come nel caso del G8 – o di episodi verificatisi in situazioni detentive, i casi di abuso di potere da parte dei funzionari dello Stato ai danni dei suoi cittadini sembrano sorretti dal minimo comune denominatore del tacito prevalere di una cultura punitiva, la cui interiorizzazione a livello sociale e istituzionale rende possibile e al tempo stesso legittima l’uso della forza quale mezzo idoneo per garantire ordine e sicurezza. E se è questo ciò che intendeva Max Weber (1922) nel descrivere lo Stato come unico detentore della «coercizione fisica e legittima», occorre rammentare come il nostro ordinamento ammetta l’uso della coazione fisica da parte degli attori pubblici unicamente qualora sia impossibile ricorrere a mezzi differenti e meno lesivi e, soprattutto, solo in ipotesi eccezionali in cui tale soluzione si riveli necessaria e proporzionata (a tal proposito si propone la lettura congiunta degli artt. 53 c.p. e 97 Cost.). Nello specifico del contesto penitenziario – che, pur non tralasciando connessioni e analogie con l’operato delle forze di polizia all’esterno, si pone come principale oggetto di questo contributo – a tali disposizioni normative si aggiunge quanto elencato dall’Ordinamento Penitenziario, il cui articolo 41 legittima l’impiego della forza fisica sui detenuti nei soli casi in cui sia «indispensabile per prevenire o impedire atti di violenza, per impedire tentativi di evasione o per vincere la resistenza, anche passiva, all’esecuzione degli ordini impartiti». Per quanto la disciplina metta nero su bianco l’impossibilità di fare ricorso alla forza fisica per il mero mantenimento dell’ordine – fatti salvi i casi di resistenza passiva che, in maniera non esente da ambiguità, ampliano la portata delle ipotesi di coazione fisica nella specificità del contesto penitenziario (Cancellaro 2020, 26) –, le immagini che testimoniano quanto avvenuto all’interno del carcere di Santa Maria Capua Vetere mostrano un chiaro scostamento da quanto elencato dal diritto. Nonostante le condanne da parte della Corte Europea per gli avvenimenti di Genova del 2001, visti gli esiti del processo Cucchi che hanno decretato la colpevolezza dei carabinieri responsabili del suo decesso e malgrado le condanne per le torture negli istituti penali di Ferrara e San Gimignano cui si associano altri 18 processi in corso per tortura e/o morte a danni di persone private della libertà (l’elenco completo dei provvedimenti, con relativa mappa territoriale, in cui è coinvolta l’Associazione Antigone in qualità di parte civile può rinvenirsi al seguente indirizzo: https://www.antigone.it/cosa-facciamo/i-processi), non sembrano esaurirsi i casi di abuso di potere all’interno dei penitenziari italiani. In questo scenario, sinonimo di una sistematica riproduzione di uso sproporzionato della forza, il caso Santa Maria Capua Vetere, seppur presumibilmente eccezionale nella sua indiscriminata ferocità, ben lontano da rappresentare un’anomalia si rivela un singolo episodio parte integrante della dominante logica di punitività e castigo che contraddistingue l’universo carcerario e che ben si presta a una più vasta riflessione di insieme (Vianello e Mosconi 2021).
Le rivolte e i fatti di Santa Maria Capua Vetere
Come è noto, i primi mesi del 2020 hanno scosso il mondo intero a causa della diffusione su scala globale del Covid19. Valicando le mura di cinta, la drammaticità, l’allerta e l’emergenza legate alla propagazione del virus hanno raggiunto la realtà carceraria, non solo a fronte del pericolo posto dal rischio di contagio all’interno di un’istituzione totale, ma anche in virtù del significativo inasprimento della conflittualità interna. Nella prima metà di marzo circa un terzo dei penitenziari italiani sono stati scenario di proteste, ribellione e disordini (Ronco, Sbraccia, e Verdolini 2020, 139) esito del connubio tra la paura del Covid19 e la reazione alle prime disposizioni adottate per arginarne la diffusione all’interno degli istituti penali. In un primo momento, infatti, attraverso il D.L. 11/2020 e successivamente del D.L. 18/2020, il governo ha optato per l’adozione di una serie di misure di chiusura del carcere rispetto alla società esterna, incidendo sull’effettiva fruibilità di colloqui, permessi premio e semilibertà. Queste previsioni, unitamente alla scarsa chiarezza espositiva nella comunicazione di tali provvedimenti da parte delle dirigenze delle strutture detentive hanno comportato un’opposizione reattiva della popolazione detenuta, talvolta giungendo a esiti fatali (Associazione Antigone 2020; Vignali 2020). È pari a 13 infatti il bilancio dei decessi dei detenuti, cui si aggiungono centinaia di feriti. In un contesto di opacità circa le dinamiche delle rivolte e delle morti, sono state due le principali tesi esplicative emerse in merito all’accaduto: da un lato durante tutto l’iter procedimentale – che ha condotto alla richiesta di archiviazione del caso – ha prevalso la ricostruzione degli assalti alle infermerie intramurarie da parte di alcuni reclusi affetti da dipendenze che, abusando di medicinali avrebbero raggiunto la condizione overdose, ritenuta causa del decesso; dall’altro lato, le voci dall’interno, le testimonianze dei detenuti e di alcuni loro parenti segnalano svariati abusi di forza da parte della polizia penitenziaria. Respinta a livello giudiziario, questa seconda tesi non solo induce a interrogarsi circa le zone d’ombra sulle testimonianze rimaste inascoltate e sul rigetto dell’opposizione all’archiviazione avanzata da Antigone e dal Garante Nazionale (il 16 giugno 2021 il G.I.P. presso il Tribunale di Modena ha accolto la richiesta di archiviazione), ma sembra al tempo stesso lasciare spazio a un’interpretazione di più ampio respiro. Al netto di una costatata dipendenza da sostanze dei reclusi coinvolti nelle sommosse, quello che è stato definito un “assalto” alle scorte di metadone e agli altri farmaci segnala una serie di nervi scoperti del carcerario. In primo luogo, la necessità di accorrere ai reparti sanitari intramurari con l’obiettivo di accaparrarsi medicinali per placare lo stato di astinenza rende evidente la perversa relazione che intercorre tra carcere e droghe. A fronte della ormai decennale decisione politica di gestire e fronteggiare il fenomeno della tossicodipendenza ricorrendo allo strumento penale (Bortolato e Vigna 2020, 37), non solo si dimostrano assai elevate le percentuali di persone arrestate per drug offences – oltrepassando il 30% sul totale dei detenuti (Associazione Antigone 2021, 5) –, ma la presenza di numerose persone affette da dipendenza da sostanze è diventata una costante della popolazione ristretta. Stando alle statistiche fornite dal Dodicesimo libro bianco sulle droghe (Zuffa et al. 2021, 39–40), la percentuale delle persone detenute con problemi di dipendenza risulta pari al 26,5%. Al tempo stesso, il 38,6% degli ingressi in carcere registrati si rivelano a carico di costoro. Ma non è solo il dato quantitativo a indicare la fallacia di un sistema che anziché destinare tali soggetti a misure alternative alla detenzione improntate al recupero e alla cura persevera nell’adozione della risposta penale che si rivela tanto inadeguata per l’utente, quanto svantaggiosa per l’istituzione, costretta a fare i conti con l’innalzamento della popolazione carceraria. Infatti, soffermandoci sull’analisi di queste variabili e facendo luce su quanto accaduto durante le rivolte appare altresì chiara l’incapacità di intervento e di presa in carico dei ristretti tossicodipendenti da parte del penitenziario, il cui personale nella maggior parte dei casi si sofferma alla mera somministrazione della terapia sanitaria alla quale non si accosta alcun intervento mirato e finalizzato al reale recupero (Di Lorenzo 2020, 177–78). Intrecciando infine queste riflessioni con lo studio della provenienza geografica delle 13 persone decedute, significativo è l’impatto della linea del colore su quanto accaduto durante le rivolte. Undici gli stranieri che hanno perso la vita durante il subbuglio, due gli italiani. Tale sproporzionata evidenza sembra non solo ricordare la cospicua presenza straniera all’interno degli istituti di pena – con una percentuale che periodicamente si attesta al di sopra del 30% (Ministero Della Giustizia 2021) –, ma segnala al contempo le accentuate condizioni di fragilità e disagio – spesso legate alla dipendenza – in cui versa larga parte dei reclusi non autoctoni (Berti e Malevoli 2004; Kalica e Santorso 2018; Passaleva 2004; Sbraccia 2004, 2007, 2016; Vianello 2020; Vignali 2021).
È sulla scia di questo clima e all’interno di questa cornice che, un mese dopo cominciano le proteste nell’istituto di Santa Maria Capua Vetere. Nella giornata del 5 aprile, gli animi di alcuni detenuti del carcere campano si scaldano, comportando una serie di resistenze verso il personale di custodia motivate dalla paura del contagio da Covid19. Con la mediazione e le rassicurazioni da parte della direzione, la sera del 5 aprile la tensione si appiana in seguito alla promessa di un incontro con il Magistrato di Sorveglianza nel giorno successivo. Il 6 aprile, tuttavia, non è solo il Magistrato a fare ingresso nell’istituto di Santa Maria Capua Vetere, ma, nonostante il ripristino dell’ordine, un contingente di 300 agenti con il volto coperto e in tenuta antisommossa varca le soglie del carcere con l’ordine di operare una perquisizione straordinaria presso il reparto Nilo (Dell’Aquila e Romano 2020, 127–28). Quel che accade successivamente all’ingresso dei poliziotti è documentato dai provvedimenti attraverso cui, tra il giugno e luglio 2021, la Procura di Santa Maria Capua Vetere ha sospeso a vario titolo 75 unità dell’Amministrazione, cui si aggiungono gli accertamenti circa altri indagati (il testo integrale dell’informativa svolta dalla ministra Cartabia davanti alla Camera dei Deputati è rinvenibile al seguente indirizzo: https://ilmanifesto.it/santa-maria-capua-vetere-linformativa-della-ministra-di-giustizia-alla-camera-il-testo-completo/). Supportati da prove video che hanno raggiunto i media nazionali e internazionali (https://video.corriere.it/cronaca/pestaggi-carcere-santa-maria-capua-vetere-nuovi-video/4a88eefc-df38-11eb-a9e5-b60d2f6601bd), i provvedimenti adottati testimoniano alcuni dei capi di imputazione dei soggetti coinvolti: lesioni personali pluriaggravate, torture e maltrattamenti. Le immagini mostrano un evidente abuso di forza, pestaggi indiscriminati, violenze e coercizioni. Paradossalmente, come sottolineato da Valeria Verdolini (2020, 140) ciò che ha caratterizzato il «conflitto destrutturato» dei giorni delle rivolte è stata una pressoché totale assenza dello scontro fisico nel momento delle proteste – su cui, unitamente al danneggiamento dell’ambiente, come evidenziato dalla corsa alle farmacie, ha piuttosto impattato la componente autodistruttiva –, alla quale si contrappone la cruda entrata in scena della violenza nella fase di ripristino dell’ordine.
A distanza di vent’anni dai fatti di Genova gli avvenimenti di Santa Maria Capua Vetere suonano come il refrain del consolidato prevalere di una cultura punitiva, in cui l’uso della forza, lungi dal dimostrarsi una soluzione eccezionale e residuale, si configura come il naturale esito dell’equilibrio tra diversi processi di legittimazione a vari livelli (Cornelli 2020, 6).
Devianza istituzionale, uso sproporzionato della forza e violenza manifesta. Un’ordinaria sospensione della democrazia
«Un manuale di etnografia carceraria» ha definito Patrizio Gonnella (2021), Presidente dell’Associazione Antigone, quanto accaduto tra le mura del carcere di Santa Maria Capua Vetere, sottolineando come la dimensione del castigo non sia un’anomalia all’interno dei circuiti carcerari, quanto piuttosto un fattore endemico rispetto al sistema, insito nei meccanismi di controllo penitenziari. Infatti, sebbene gli episodi dell’aprile del 2020 possano – forse – essere considerati eccezionali nella loro brutalità indiscriminata, ciò che emerge dall’analisi delle logiche sociali interne è una quotidianità densa di sopraffazioni e sofferenze basata sul costante riprodursi del «rapporto impari tra chi è sottoposto alla disciplina e chi è preposto al mantenimento dell’ordine» (Vianello e Mosconi 2021). In tal senso, appare tangibile lo squilibrio tra l’ampio margine di discrezionalità di cui gode il personale penitenziario rispetto al detenuto, soggetto a continue imposizioni che lo rendono fragile e impotente al punto da innescare i noti meccanismi di «riduzione e mortificazione del sé» brillantemente descritti da Erving Goffman (1974). Ed è proprio lo stesso Goffman a esplicitare le sbilanciate dinamiche di potere che intercorrono tra staff e internati, sostenendo che «qualsiasi membro appartenente alla classe dello staff ha certi diritti per disciplinare qualsiasi membro appartenente alla classe degli internati, aumentando in modo evidente la probabilità di un sistema di sanzioni» (Cit. Goffman 1974, 70). Se tale strutturazione dei rapporti costituisce la natura stessa del penitenziario, di fatto rendendo legittima la dominazione ad ampio raggio dei custodi sui custoditi, le rivolte del 2020 hanno temporaneamente fatto vacillare tale senso di autorità e autoaffermazione, innescando la reazione del sistema che ha esasperato le ordinarie forme di violenza sottile, implicita e latente, trasformandola in violenza feroce e manifesta (Verdolini 2021; Vianello e Mosconi 2021). Ma ciò che in concreto ha reso possibile questo drammatico passaggio è
l’indissolubile rapporto che intercorre tra la violenza e potere, il cui abuso è sinonimo di tortura, funzionale a ristabilire l’ordine passando per l’umiliazione di chi si oppone (Di Cesare 2016; Camilli 2021). Tale degenerazione, che ben contribuisce a evidenziare la natura essenzialmente punitiva del sistema carcere, dimostra come l’uso della forza quale strumento di appianamento del conflitto non solo sia legittimato, evidenziando quanto la sua applicazione sia altresì l’esito di un potere discrezionale dai limiti non chiaramente definiti e i cui abusi rischiano troppo spesso di rimanere impuniti.
Entrando nello specifico dei fatti di Santa Maria Capua Vetere sono almeno quattro gli elementi degni di una più profonda analisi sociologica, utili per cogliere i nessi tra vari livelli di devianza istituzionale che confluiscono nella affermazione e nell’accettazione collettiva di un paradigma punitivo i cui labili confini rischiano di corrodere i capisaldi fondamentali dello Stato democratico.
Il primo elemento, per dirla con Fassin (2018), richiama una sorta di «piacere nel punire». Lungi dal rivelarsi accidentali e involontarie, la crudezza delle immagini delle rappresaglie a Santa Maria Capua Vetere mostra come alla normalità di un castigo ritenuto lecito poiché agito dai custodi sui “pericolosi” custoditi si accosti una volontaria ferocia punitiva, associabile a ciò che Durkheim definiva «una sorta di supplizio privo di scopo, o meglio, che non può avere altra causa che il bisogno di rendere il male per il male» (Cit. Durkheim 1962; Fassin 2018, 100–101). All’opposto da quanto sostenuto da Hannah Arendt nella sua tesi della banalità del male (1964), le violenze subite dai detenuti nel carcere campano, in maniera non dissimile rispetto ai fatti della Diaz e della caserma di Bolzaneto nel 2001, si rivelano l’esito naturale di un percorso di normalizzazione del male, in cui chi abusa del proprio ruolo attraverso l’applicazione illegittima della forza sembra farlo consapevolmente e con convinzione (Cancellaro 2020, 30; Cornelli 2020, 143; Haslam e Reicher 2007, 619). In altre parole, la spietata coercizione fisica ravvisabile negli episodi di police brutality – tanto nella società libera, quanto nella sua forma spesso ancor più amplificata all’interno del carcere – non è altro che parte integrante di una violenza strutturale che trae origine dall’imporsi di un’accezione patologica del potere in virtù del quale risulta ben distinta e predeterminata la contrapposizione tra chi subirà abusi e chi ne sarà protetto (Farmer e Sen 2005; Ronco, Sbraccia, e Verdolini 2020, 145).
Connesso alla appena esposta estremizzazione della violenza fisica è il secondo elemento, ossia il linguaggio, il cui uso spietato, seppur privo di impatto fisico, rende evidente l’intrinseca brutalità degli eccessi del sistema. Il gergo carcerario non è solo forma, ma è esplicitazione degli stereotipi e dei pregiudizi di cui il penitenziario è intriso: il detenuto – spesso ancora chiamato “camoscio” – è disumanizzato e non di rado paragonato a un animale (Gonnella 2021). Alcune intercettazioni telefoniche riferibili ai fatti di Santa Maria Capua Vetere comprendono frasi come “abbattiamoli come vitelli”, “domate il bestiame” o “quattro ore di inferno per loro” (Gonnella 2021; Rizzo 2021). Ma la violenza di cui queste parole sono dense non è un’eccezione rispetto all’uso quotidiano di un lessico infantilizzante e talvolta dispregiativo in riferimento ai detenuti, i quali, spogliati dai loro ruoli e alienati dalla quotidianità dell’istituzione (Goffman 1974) vedono la propria personalità sbriciolarsi a fronte del perpetuarsi di dinamiche stigmatizzanti e disumane (Bortolato e Vigna 2020; Frediani 2018; Paone e Vignali 2021; Ricciardi 2005). Sulla stessa scia si pone quanto accaduto vent’anni prima durante il G8 di Genova, quando all’uccisione del manifestante Carlo Giuliani da parte di un carabiniere seguirono intercettazioni delle forze dell’ordine recanti frasi come “speriamo che muoiano tutti, uno a zero per noi, yeah” oppure i tanti epiteti tra cui “bastardi” o “zecche” pronunciati unitamente agli ordini di “abbaiare come cani” e al denudamento delle persone durante la gravi mattanze presso la scuola Diaz e la caserma di Bolzaneto (Davies 2008). Piuttosto che stupire i degradanti e disumani termini che hanno accompagnato i pestaggi di Genova e di Santa Maria Capua Vetere – e che potremmo definire parte integrante di un vero e proprio lessico della tortura –, sembrano essere la naturale conseguenza dell’estremizzazione dell’ordinario utilizzo del linguaggio avvilente di sovente adottato nei confronti dei soggetti sottoposti a custodia.
Il terzo elemento di approfondimento coincide con il muro di omertà attorno alla vicenda. Sebbene l’introduzione del reato alla tortura e l’impatto mediatico di alcuni processi per abuso di potere abbiano sensibilizzato vittime e parte dell’opinione pubblica su questi temi, non è raro che l’uso illegittimo della forza da parte del personale penitenziario non sia denunciato (Ferrari 2015, 80), rivelando la solida tenuta di quel susseguirsi di negazioni che Stanley Cohen (2002) ben ha riassunto nel triangolo delle negazioni. Come testimoniato a più riprese dalla sezione del Difensore Civico di Antigone, nella maggior parte dei casi i reclusi che subiscono violenza non denunciano per difficoltà o paura (Filippi 2016). In questo scenario, talvolta sono i parenti che ne vengono a conoscenza a intraprendere azioni legali, altre volte le denunce giungono da qualche funzionario penitenziario. Ma, stando ai fatti, questa ultima ipotesi sembra delinearsi un’eccezione rispetto al più frequente ricorso allo spirito di corpo (Gonnella 2021), in virtù del quale non solo gli agenti, ma anche altri attori pubblici contribuiscono a mantenere celati gli illeciti del sistema. In tal senso, si prenda a esempio l’inchiesta di Santa Maria Capua Vetere, che non ha a oggetto unicamente lesioni, torture e maltrattamenti, ma comprende falso in atto pubblico, calunnia e depistaggio, fattispecie imputate a coloro che hanno cercato di inquinare le prove e depistare le indagini (Gonnella 2021; Vianello e Mosconi 2021). Analogamente, potremmo sostenere una pressoché diretta correlazione tra la noncuranza e l’indifferenza degli operatori sanitari, dei giudici e degli altri attori istituzionali coinvolti nella vicenda Cucchi e il decesso del ragazzo (Vignali 2019). Non dissimile quanto avvenuto alla Diaz e a Bolzaneto, dalle cui indagini è emerso il coinvolgimento del comparto sanitario negli abusi, come il caso dell’infermiera che suturava i punti chirurgici senza l’utilizzo dell’anestesia (Davies 2008) o del medico responsabile dell’infermeria di Bolzaneto che, presente durante la mattanza, non indossava il camice bianco, ma anfibi e mimetica (Camilli 2021). Queste vicende aprono a due ulteriori riflessioni, da un lato evidenziando la difficoltà nel fare luce sugli abusi che avvengono negli spazi detentivi e di custodia, luoghi di chiusura e di omertà, in cui il diritto alla difesa finisce per essere compromesso dalle opache circostanze che li contraddistinguono (Cancellaro 2020, 31); dall’altro lato, esponendo la consapevolezza degli autori delle violenze di essere parte integrante di un corpo istituzionale basato sulla condivisione di un sapere di polizia che si pone a garanzia della legittimazione dell’uso della forza, comportandone spesso l’impunità (Cornelli 2020, 159; Gonnella 2021).
Non slegato da questo ultimo aspetto, infine, il quarto elemento riguarda la ricerca di una giustificazione. Come precedentemente esposto, il nostro ordinamento contempla la possibilità di ricorrere all’uso della forza da parte dei funzionari dell’ordine – nella società libera, così come nei luoghi di privazione della libertà – solamente in casi urgenti ed eccezionali. In tal senso, sebbene il ricorso alla coercizione fisica sia ammesso solo come soluzione ultima rispetto a una situazione di particolare gravità, l’agente ha sempre potere discrezionale nel decidere se operare attraverso l’utilizzo della forza (Cornelli 2020, 37). La casistica che negli anni ha riguardato le indagini in merito all’abuso di potere, tuttavia, ha dimostrato come i confini tra il corretto espletamento delle funzioni di ordine e controllo e lo scivolamento verso la violenza siano spesso labili. Le rappresaglie del G8 di Genova, la morte di Stefano Cucchi, le condanne per tortura negli istituti penali di Ferrara e San Gimignano e, solo da ultimo, i pestaggi di Santa Maria Capua Vetere rendono palese l’immotivato accanimento nei confronti di persone poste nelle mani dello Stato. Seppur probabilmente con finalità diverse – in tal senso, il fine politico faceva da sfondo a quanto accaduto a Genova, cosa non ravvisabile nei fatti intramurari –, la brutalità, la violenza indiscriminata e le modalità di annientamento paiono le medesime. Analizzando in profondità ognuno di questi casi emerge chiara la ricerca da parte delle istituzioni di una giustificazione che possa rendere istituzionalmente legittima la reazione violenta delle forze dell’ordine. Se a Genova si susseguirono quelli che il Pubblico Ministero Enrico Zucca ha definito come «grotteschi tentativi di depistaggio», tra cui l’introduzione di armi non appartenenti ai manifestanti all’interno della scuola Diaz e il sospetto coinvolgimento – ancora mai effettivamente dimostrato – di infiltrati all’interno del cosiddetto “blocco nero”, il contingente più estremo dei manifestanti (Callieri 2021; Davies 2008; Palidda 2008), le intercettazioni del Provveditore regionale indagato per avere ordinato insieme al Comandante la perquisizione straordinaria a Santa Maria Capua Vetere sembrano tese a cercare il pretesto, l’«occasione» idonea per la giustificazione della rappresaglia (Sannino 2021). Volendo preliminarmente chiarire che nessun presunto preteso avrebbe in alcun modo potuto giustificare quelli che si sono dimostrati veri e propri eccessi nell’utilizzo della forza al punto da rientrare nei parametri del reato di tortura, preme sottolineare come tali pianificazioni di rappresaglia, accostate ai ripetuti tentativi di inquinamento dei fatti, evidenzino una serie di responsabilità istituzionali a vari livelli, la cui concatenazione non solo rende questi tragici episodi ancora possibili, ma troppo spesso ne garantisce l’impunità (Gonnella 2021).
Quale modello di ordine?
I fatti di Santa Maria Capua Vetere sono solo l’ultima tappa di una di una serie di vicende di violenza di Stato all’italiana. All’interno del penitenziario campano è stato inscenato l’ennesimo capovolgimento di ruoli e visioni, in virtù del quale chi è posto a tutela della legge e della giustizia se ne discosta e chi ha il compito di mantenere l’ordine crea invece uno scellerato disordine (Carnevale 2018, 325). Lungi dal collocarsi nell’alveo dell’eccezionalità, la punitività agita a Santa Maria Capua Vetere sembra piuttosto un frame di una serie di processi politici e sociali che non solo rendono possibili gli eccessi nell’uso della forza, collocandoli in una sorta di naturalità costruita e condivisa, ma che al contempo non ne prevedono la prevenzione, né la soluzione. Dal passato recente si evince la necessità di un cambiamento multilivello che riconosca la responsabilità di Stato insita a questi episodi e che punti al ripensamento del sistema penal-punitivo nella sua interezza. Infatti, per quanto in Italia la tardiva introduzione del reato di tortura nel 2017 abbia segnato un punto di svolta nelle strategie di prevenzione dell’abuso di potere, permettendo altresì due anni dopo di incasellare i pestaggi nei penitenziari di San Gimignano e di Torino all’interno della cornice del reato di tortura, tale provvedimento non sembra arginare il problema. Non solo in virtù del fatto che continuino a ripetersi casi analoghi, ma anche a causa di due significative lacune. In primo luogo, l’introduzione di questa fattispecie criminale all’interno del codice penale risulta carente sotto molteplici punti di vista, primi tra tutti la codifica della tortura come reato comune, con semplici aggravanti nel caso in cui a commettere il crimine sia un pubblico ufficiale o un incaricato di pubblico servizio e l’imperdonabile assenza degli identificativi sulle divise degli agenti, “dettaglio” che, da ultimo, ha consentito agli agenti entrati a volto coperto nell’istituto di Santa Maria Capua Vetere di non essere identificabili (Cancellaro 2020, 28; Di Mauro 2021). Secondariamente, ciò di cui si avverte un impellente bisogno è un radicale cambiamento culturale. In tal senso, a poco possono le norme atte a sanzionare i singoli autori delle condotte illecite se non accompagnate da un reale cambio di direzione a livello politico-sociale in grado di smantellare il decennale prevalere di una cultura punitiva che fatica a perdere mordente. Per citare nuovamente Fassin (2018), le forme di castigo agite dalle forze dell’ordine non sono altro che l’esisto dell’esasperazione di una cultura punitiva propria di un contesto storico, culturale e politico che le rende possibili, legittimandole. Con il passaggio alle moderne società occidentali si è innescato un processo culturale che in seguito alla totale eliminazione del ricorso alla violenza privata ha reso legittima la concentrazione del monopolio della violenza nelle forze di polizia, il cui effetto collaterale è riscontrabile nelle varie forme di violenza di Stato, talvolta dagli esiti fatali, generate nei casi di abuso della posizione ricoperta (Cornelli 2020). È proprio analizzando i fatti attraverso questa prospettiva che sembra inaccettabile l’appiattimento del dibattito sulla ripetuta retorica delle “mele marce”, in virtù della quale solo gli autori di violenza sarebbero gli ingranaggi difettosi di una macchina impeccabile (Cancellaro 2020; Cornelli 2020; Rizzo 2021; Vianello e Mosconi 2021). In uno scenario di questo tipo non è certamente possibile parcellizzare azioni e responsabilità, ritenendo chi agisce l’unico colpevole degli abusi. L’esecutore non è altro che l’ultimo anello di una catena punitiva improntata all’uso muscolare della forza il cui punto di partenza coincide con le più alte disposizioni politiche da cui dipendono tanto i metodi di intervento e la formazione del personale, quanto la trattazione del tema e la conseguente accettazione da parte dell’opinione pubblica. Occorre dunque una lettura di più ampio raggio, che, rigettando l’idea dell’eccezionalità degli eccessi, sia in grado di cogliere a trecentosessanta gradi le responsabilità politiche che si celano dietro queste ripetute sospensioni dello stato di diritto, puntando altresì a nuovo paradigma culturale che non solo tuteli la dignità umana, favorendo l’avanzamento giurisprudenziale in materia, ma che offra al contempo le basi per una reale ripensamento del modello di ordine costituito.
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Carlotta Vignali, PhD
Dipartimento di Scienze Politiche dell’Università di Pisa