Con la sentenza ivi in oggetto, la Corte di Cassazione torna ad occuparsi della questione dei famosi (rectius: “famigerati”) tre metri quadrati di spazio all’interno della cella del detenuto e dei criteri di calcolo degli stessi al fine di accertare l’eventuale violazione dell’art. 3 CEDU.
In particolare, la Prima Sezione conferma l’orientamento espresso nelle Sezioni Unite Commisso (SS. UU. 6551/2020), secondo le quali « nella valutazione dello spazio individuale minimo di tre metri quadrati (…) si deve avere riguardo alla superficie che assicura il normale movimento nella cella e, pertanto, vanno detratti gli arredi tendenzialmente fissi al suolo, tra cui rientrano i letti a castello». Nel caso di specie, all’interno dell’ordinanza oggetto di ricorso, il Tribunale di Sorveglianza non aveva tenuto in considerazione (e la Corte precisa, al punto n. 5 della motivazione, che il dato neppure emergeva dagli atti) se il letto la cui computabilità era in discussione fosse fissato al suolo o mobile, con violazione del principio espresso dalla più alta giurisprudenza di legittimità e dalla Corte di Strasburgo.
E’, dunque, la “possibilità di movimento” all’interno dello spazio vitale a costituire la misura della umanità (o disumanità) della detenzione inflitta, e non la sua “vivibilità complessiva”.
Questa affermazione di principio costituisce, senz’altro, un atto di concretizzazione del diritto umano alla dignità e di responsabilizzazione dell’Amministrazione Penitenziaria da parte dei giudici, in quanto è fissato un discrimine tra rispetto e violazione dell’art. 3 CEDU ben più concreto rispetto a una valutazione generica della condizione necessaria per un’esistenza più umana, per quanto si possa ritenere umana la condizione di detenuto. In altre parole, prendere come riferimento la “movibilità” del recluso nella cella permette di eliminare giudizi discrezionali dannosi per la certezza del diritto, criterio di massima importanza soprattutto quando vengono in ballo diritti fondamentali.
Dunque, la predetta “movibilità” è ridotta a causa della presenza di strutture od oggetti che non possono muoversi perché strutturalmente fissi, fissati al suolo o aventi una capacità di ingombro tale da non poter essere spostati facilmente: afferma la Corte che «la superficie destinata al movimento nella cella è limitata dalle pareti nonchè dagli arredi che non si possono in alcun modo spostare e che, quindi, fungono da parete o costituiscono uno spazio inaccessibile». A tal proposito, gli Ermellini richiamano ancora la giurisprudenza CEDU e il suo appoggiarsi nell’argomentare al termine “mobile” e alla sua etimologia, la quale indica, per l’appunto, un oggetto “che può essere mosso” da un punto all’altro della cella.
Proprio “nella” cella, luogo di reclusione per eccellenza, il soggetto detenuto può muoversi: egli può spostarsi soltanto al suo interno, senza poter uscire, transitare e in seguito rientrare liberamente, se non nei casi preventivamente determinati. Ciò costituisce la differenza fondamentale rispetto ai soggetti che, invece, detenuti non sono: essi «dimorano tranquillamente in stanze nelle quali la superficie pro-capite è inferiore a quella stabilita dalla sentenza e, prima ancora, dalla giurisprudenza della Corte EDU, ma hanno la possibilità di uscire da quella stanza e di muoversi liberamente nell’abitazione e fuori dall’abitazione. Se, invece, la camera è una cella nella quale il detenuto è obbligato a rimanere per un lungo periodo di tempo senza poter uscire, la possibilità di movimento, il poter compiere alcuni passi per spostarsi, diventa vitale, rilevantissimo e la relativa impossibilità rischia di essere intollerabile, degradante e inumana».
Su quanto affermato sino ad ora si innesta la riflessione che concerne la possibilità di utilizzare un letto singolo (non a castello) non soltanto per il riposo, ma anche per attività che possono svolgersi sopra di esso, non diminuendo – anzi, auspicabilmente, aumentando – la vivibilità complessiva della cella: ebbene, ciò non rileva ai fini del computo, in quanto il solo discriminante a venire in rilievo è la predetta fissità degli arredi e la possibilità del recluso di muoversi nello spazio da essi occupato. Afferma la Corte che «la considerazione secondo cui il letto singolo può essere utilizzato per finalità ulteriori rispetto al riposo (leggere, giocare a carte, parlare ecc.), a differenza del letto a castello, non rileva per la decisione in punto di sovraffollamento. Se il letto singolo è ancorato al suolo – non è, cioè, mobile – i detenuti all’interno della cella non possono utilizzare lo spazio dallo stesso occupato per camminare e per spostarsi; se, invece, non è ancorato al suolo, c’è la possibilità di spostarlo durante il giorno per specifiche necessità, al pari delle sedie e di tavolini, e, quindi, di utilizzare il relativo spazio».
Del resto, è vero che già il fatto di poter utilizzare lo spazio occupato da un mobile – seppur a diversi fini – implica anche la possibilità di muoversi sopra o sotto ad esso: ciò che rileverebbe in questo caso, sarebbe, allora, non tanto l’area occupata in maniera fissa o mobile, quanto il volume dell’ingombro, essendo il “movimento” una attività che si svolge tridimensionalmente e non bidimensionalmente. Inoltre, occorrerebbe tenere conto anche dello spazio da terra occupato (più l’arredo è alto – o lungo, se fissato al soffitto – più lo spazio per muoversi è ridotto) e dell’altezza della cella.
E’ altresì vero, tuttavia, che l’istanza di certezza del diritto a fronte di un tema vivo sin dai tempi delle sentenze Sulejmanovic e Torreggiani e presente nella gran parte dei Paesi europei e del mondo intero costringe i giudici nazionali e sovranazionali ad approdi ermeneutici più semplici e immediati possibile, i quali si pongono comunque nell’ottica del più ampio rispetto dei diritti fondamentali del soggetto detenuto.
Quì la sentenza
Guglielmo Sacco