La Corte di Cassazione (sez. V, 28 febbraio 2022, n. 19536, dep. 18 maggio 2022) ribadisce i criteri interpretativi ai fini della concedibilità dei permessi premio ai condannati per reati c.d. “di prima fascia” ex art. 4 bis co 1° o.p., alla luce della sentenza n. 253 del 2019 della Corte Costituzionale, individuando altresì i relativi poteri istruttori del Tribunale di sorveglianza.
Con la presente decisione, la Corte di Cassazione torna a ribadire alcuni fondamentali principi in tema di permessi premio ex art. 30 ter o.p., e, segnatamente, si occupa dell’ipotesi in cui il predetto beneficio sia richiesto da un condannato per reati di cui all’art. 4 bis, comma I, o.p.
La pronuncia consegue al ricorso promosso dal difensore avverso il (secondo) rigetto del reclamo proposto innanzi al competente Tribunale di Sorveglianza, che aveva provveduto a riesaminare il merito della richiesta a seguito di un primo annullamento con rinvio.
In particolare, l’impugnazione censurava l’omessa considerazione del percorso complessivo dell’istante, rilevando come il Tribunale si fosse limitato a riportare unicamente i gravi fatti per cui aveva riportato condanna e che, pertanto, la valutazione in tema di pericolosità sociale fosse del tutto scollegata al criterio normativo dell’attualità.
Prendendo le mosse da tali critiche, il Collegio provvede, innanzitutto, a chiarire il perimetro di valutazione del Tribunale di Sorveglianza. Viene, infatti, affermato che il compito di quest’ultimo non si risolve nel mero scrutinio delle motivazioni della decisione impugnata e nella conseguente valutazione di correttezza o meno del medesimo, ma ricomprende altresì l’obbligo di tenere di conto delle circostanze che siano sopravvenute alla decisione del Magistrato e di colmare le eventuali lacune istruttorie ivi riscontrabili anche attraverso l’utilizzo dei propri poteri ufficiosi, soprattutto laddove tali profili siano specificatamente dedotti dal reclamante in sede di udienza.
La Corte di Cassazione, delinea, pertanto un procedimento di Sorveglianza caratterizzato da naturale dinamicità, caratteristica finalizzata a garantire che i provvedimenti adottati, nel momento in cui si giunge alla loro emissione, siano il più possibile rispondenti alla reale situazione personale del condannato.
Tanto premesso quanto all’aspetto procedimentale, il Collegio passa a ricostruire gli importanti principi dettati dalla sentenza n. 253/2019 della Corte Costituzionale, che, com’è noto, ha dichiarato l’illegittimità dell’art. 4 bis, comma I, o.p., nella parte in cui non prevedeva che, “ai detenuti per i delitti di cui all’art. 416 bis c.p. e per quelli commessi avvalendosi delle condizioni previste dallo stesso articolo o al fine di agevolare l’attività delle associazioni ivi previste” (ed, in via consequenziale, anche agli altri reati contenuti nel catalogo di cui all’art. 4 bis, comma I, o.p.) possano essere concessi permessi premio anche in assenza della collaborazione con la giustizia a norma dell’art. 58 ter o.p., allorché siano stati acquisiti elementi tali da escludere sia l’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata, sia il pericolo di ripristino di tali collegamenti”.
La rimozione della presunzione assoluta di pericolosità di coloro che, condannati per i reati c.d. di prima fascia, non collaborino con la giustizia e la conseguente possibilità, per i medesimi, di accedere ai permessi premio permette di restituire coerenza di sistema ad un istituto – quello, appunto, dei permessi – che ha natura e funzione primariamente pedagogica, essendo parte integrante del programma di trattamento.
Anche in tali ipotesi, si restituisce, pertanto, al Giudice di merito la funzione che gli è propria, ovvero quella di valutare in concreto e secondo criteri individualizzanti il percorso carcerario del condannato al fine di giudicare se la presunzione relativa di persistenza del vincolo criminale possa ritenersi superata.
Sulla scorta di tali considerazioni, la Corte di Cassazione provvede a criticare duramente il provvedimento impugnato, rilevando come il medesimo dia vita ad “una motivazione dalla matrice spiccatamente eticizzante, che indulge in più punti ad osservazioni ispirate a moralismi, quasi puntando all’emenda del condannato dal punto di vista personale ed intimo”.
Ed in effetti, la motivazione del Tribunale denota un’evidente, duplice, contraddizione di principio: in primo luogo, la dimostrazione della pericolosità sociale in termini di attualità viene basata sulla commissione di fatti che, seppur gravi, risalgono a oltre venticinque anni prima; inoltre, la sussistenza del pericolo di ripristino viene fondata, principalmente, sulla decisione del detenuto di non collaborare con la giustizia.
In particolare, il primo tra gli aspetti appena citati – ovvero il curriculum criminale del ricorrente – viene utilizzato per fondare valutazioni che esulano dal perimetro normativo e che attendono, invero, ad un piano metagiuridico: si legge, infatti, nel provvedimento che permarrebbe “un’enorme sproporzione tra le condotte delittuose e l’appartenenza mafiosa ad altissimo livello, da un lato, e la ripresa di una vita corretta e coerente in carcere”; che la circostanza che il condannato non abbia mai pronunciato la parola mafia denota una mancata presa di distanza morale dal contesto criminale che lo ha visto protagonista; che appare necessario un sincero “pentimento”.
A tal proposito, la Corte evidenzia che tale modo di procedere, oltre a porsi in netto contrasto con il principio rieducativo cui volge ogni pena, denota una regressione rispetto agli approdi costituzionali innanzi riportati, nei quali la condotta di non collaborazione veniva correttamente qualificata quale vero e proprio corollario del diritto di difesa ex art. 24 Cost. e, pertanto, identificata in un comportamento del tutto legittimo.
Ribadisce, altresì, che i criteri interpretativi da utilizzare per fondare le decisioni in materia di permessi premio post sentenza 253/2019 Corte Cost. sono unicamente quelli ivi indicati, essendo indebita qualsivoglia commistione tra il piano giuridico ed il piano etico – morale.
Il Magistrato di Sorveglianza dovrà quindi basarsi su elementi oggettivi, concreti, specifici ed attinenti a tutto il percorso intramurario svolto dal detenuto durante l’esecuzione della pena così come risultante dagli atti acquisiti durante l’istruttoria, e non su convinzioni o pregiudizi personali, sociali o culturali rispetto alla gravità del/i reato/i, al dolore causato alle persone offese o al tipo di lessico utilizzato dal condannato.
Ciò non impedisce ma, anzi, rende doveroso il bilanciamento di tali tutti i suddetti elementi, attraverso una motivazione che dia conto del perché gli aspetti positivi consentano di superare la presunzione relativa, oppure delle ragioni oggettive per le quali la complessiva vicenda personale del detenuto non permetta di ritenere cessati i collegamenti o insussistente il pericolo di ripristino.
avv. Sara Palandri