Con la sent. n. 231 del 2021 si registra un significativo passo indietro della giurisprudenza costituzionale quanto agli approdi dalla stessa raggiunti in tema di esecuzione della pena nei confronti dei minorenni. In effetti, si deve al Giudice delle leggi l’individuazione delle coordinate di un modello esecutivo minorile che mette al centro i bisogni di una personalità in formazione, portatrice del diritto ad una regolare crescita psico-sociale: la prevalenza delle esigenze di recupero e di maturazione, rispetto alla pretesa punitiva dello Stato (Corte cost. n. 90 del 2017); il ricorso ad un approccio individualizzato nell’intervento punitivo (Corte cost. n. 263 del 2019); l’accoglimento di un concetto educativo, più che rieducativo, della pena desumibile dal combinato disposto degli artt. 27 comma 3 e 31 co. 2 Cost., secondo cui va rifiutato ogni automatismo che escluda i minorenni condannati dalla fruizione di misure di favore (Corte cost. n. 46 del 1978 e Corte cost. n. 168 del 1994).
La Corte, in questo caso, chiamata ad esprimersi sulla legittimità costituzionale dei limiti di pena per l’accesso alle misure penali di comunità dell’affidamento in prova al servizio sociale e della detenzione domiciliare (artt. 4 comma 1 e 6 comma 1 d.lgs. 121/2018), dichiara non fondate le questioni adducendo ragioni non sempre impeccabili, né convincenti. Le censure proposte erano sostanzialmente due: violazione dell’art. 76 Cost. per contrasto con i princìpi contenuti nella legge delega 103/2017 (art. 1 commi 82, 83 e 85, lett. p) e violazione degli artt. 3, 27 comma 3 e 31 comma 2 Cost., poiché la previsione di soglie di pena residua per l’accesso ai benefici prefigura un automatismo incompatibile con una valutazione individualizzata atta a verificare l’idoneità della misura penale di comunità a conseguire le preminenti esigenze di recupero e inserimento sociale che debbono presiedere all’esecuzione della pena nei confronti di un minorenne.
Quanto all’eccesso di delega, i dubbi sollevati si appuntano sui criteri che prevedono l’ampliamento dei presupposti di accesso alle misure extra moenia e l’eliminazione di ogni automatismo per la concessione o la revoca di un beneficio. La legge penitenziaria minorile, secondo il remittente, sembra averli traditi entrambi, poiché, da un lato, un effettivo ampliamento non si è avuto (o comunque non apprezzabile dal punto di vista applicativo) e, dall’altro, la previsione di un tetto di pena per fruire di una delle due misure di comunità funziona da “sbarramento automatico” che impedisce un apprezzamento individualizzato sulla loro idoneità a perseguire i preminenti scopi educativi assegnati all’esecuzione della pena (nel caso di specie si trattava di un minorenne sottoposto durante il processo alla misura di sicurezza del riformatorio giudiziario, eseguita nelle forme del collocamento in comunità, esecuzione interrotta al passaggio in giudicato della sentenza di condanna perché la pena applicata risultava di entità superiore al limite previsto sia per l’accesso all’affidamento in prova che alla detenzione domiciliare, con il conseguente arresto di un positivo percorso di recupero già in atto).
Sulla prima delle due violazioni sospette di incostituzionalità, la Corte evidenzia che, seppur minima, c’è (quantomeno formalmente) una maggiore possibilità di applicazione sia dell’affidamento in prova al servizio sociale, sia della detenzione domiciliare e, pertanto, il legislatore minorile, nell’esercizio del proprio potere discrezionale, avrebbe rispettato il principio posto dalla legge delega, anche se, subito dopo la Corte sembra sconfessare le sue stesse affermazioni ricordando al legislatore che optare per soluzioni normative «volte ad ampliare la sfera applicativa delle misure alternative alla detenzione inframuraria rimane, peraltro, auspicabile, in considerazione della preminenza attribuita alla finalità educativa e socializzante dell’esecuzione penale minorile, anche allo scopo di evitare controproducenti interruzioni dello specifico percorso già intrapreso»; come se, in questa occasione, il legislatore non lo avesse fatto. E questo auspicio tramuta in “invito a provvedere” quando ricorda che «al fine di regolare l’accesso alle misure penali di comunità [sono] configurabili assetti diversi, più flessibili e attributivi di maggiori spazi per una valutazione giudiziale, così come era stato previsto, per entrambe le misure penali di comunità in esame, dallo schema governativo di decreto legislativo recante disciplina dell’esecuzione delle pene nei confronti dei condannati minorenni», schema non riprodotto dal d.lgs. 121/2018 (il riferimento è alla bozza di decreto legislativo elaborata dalla commissione ministeriale presieduta da Francesco Cascini, la quale aveva escluso la predeterminazione di soglie di pena per poter fruire delle misure penali di comunità, interpretando in maniera rigorosa le indicazioni vincolanti del delegante). Insomma, secondo la Consulta il delegato non è stato proprio fedele alle prescrizioni del delegante: molto di più avrebbe potuto, anzi, dovrebbe fare.
Stessa conclusione pure per la seconda delle censure evidenziate, anche se qui la motivazione appare ancor meno convincente. Innanzitutto la Corte evita di esprimersi sulla riconducibilità dei limiti di pena per l’accesso ai benefici nel concetto di “automatismo”: instilla il dubbio che non siano degli automatismi preclusivi in senso assoluto, ma in realtà escluderlo è impresa ardua, visto che le soglie di pena previste rendono inammissibile l’istanza, impedendo di valutare nel merito l’idoneità della misura penale di comunità a contenere la pericolosità sociale del minorenne, tenuto conto del percorso educativo intrapreso e degli obiettivi risocializzativi attinti. Dunque funzionano da ostacolo insormontabile e indipendente da ogni valutazione nel caso concreto. E lo aveva affermato di recente lo stesso Giudice: parafrasando un passaggio della sent. n. 263 del 2019, si può dire che in ragione dell’astratto limite di pena per l’accesso ai benefici «è impedita al giudice una valutazione individuale sul concreto percorso rieducativo compiuto dal minore». E ogni disposizione che innesta dei meccanismi automatici che sottraggono all’organo giurisdizionale il potere di effettuare il giudizio di comparazione tra esigenze contrapposte da valutare in the best interest of the child è da ritenersi incompatibile con la speciale tutela che l’ordinamento costituzionale concede al minorenne.
Ardito poi il passaggio argomentativo nel quale la Corte prova a dimostrare che non ogni automatismo escluderebbe una valutazione individualizzata; nel nostro caso, poiché si tratterebbe di un limite di pena costruito sul residuo ancora da scontare (l’arco temporale «che separa il condannato dalla fine della pena»), «nell’attribuire specifico rilievo allo stato di avanzamento del percorso rieducativo, le disposizioni censurate non trascurano la progressione del trattamento di recupero del singolo condannato». In realtà accade esattamente il contrario, come dimostra il casus belli su cui è costruita l’ordinanza di rinvio (relativa, come si accennava, ad un minore che già da oltre un anno e mezzo si trovava in comunità educativa, in esecuzione della misura di sicurezza del riformatorio giudiziario, svolgendo un positivo percorso rieducativo e risocializzante che il passaggio alla fase esecutiva costringe all’interruzione). Con questa declaratoria di infondatezza il Giudice delle leggi sembra dimenticare la specificità del sistema di giustizia minorile pensato per i minorenni (che, detto per inciso, la Corte stessa ha contribuito a costruire), sistema che si struttura in chiave educativa fin dal processo, affinché l’esercizio della potestà punitiva “impatti” il meno possibile sulla personalità del minorenne e sui suoi positivi percorsi evolutivi in atto, ricorrendo a strumenti di diversion che spostano la risposta penale dal piano sanzionatorio-retributivo a quello pedagogico-risocializzante. Dunque, contrariamente a quanto affermato dalla Corte, proprio attribuendo specifico rilievo allo stato di avanzamento del percorso educativo, una norma che fissi una soglia di pena ostativa alla concessione di una misura di favore «[trascura] la progressione del trattamento di recupero del singolo condannato».
Tampoco condivisibili le ragioni che escludono la fondatezza delle questioni di costituzionalità rispetto agli artt. 3, 27 comma 3 e 31 comma 2 Cost.: per la Corte non è irragionevole la «scelta legislativa di limitare l’accesso alle due misure penali di comunità in esame a coloro che debbono espiare pene particolarmente elevate», poiché «rispetto a pene superiori ai limiti stabiliti dalle disposizioni censurate – non può ritenersi né irragionevole, né sproporzionato, esigere che al condannato sia (temporaneamente) inibito l’accesso all’affidamento in prova o alla detenzione domiciliare». Peccato che ancora una volta la Consulta dimentichi ciò che accade durante la fase di cognizione, dove analoghi strumenti possono essere adottati senza che vi sia alcun limite di pena ostativo all’impiego. Durante il processo, ad esempio, è consentito al giudice di “mettere alla prova” un minorenne qualunque sia il reato commesso (teoricamente anche per delitti puniti con la pena dell’ergastolo), o di sottoporlo ad una misura cautelare a carattere obbligatorio o a una misura di sicurezza con collocamento in comunità pure per fatti in concreto significativamente gravi (nel caso di specie si trattava di un minorenne condannato per «reati di violenza sessuale anche di gruppo, ai danni di minorenni, nonché violazione legge stupefacenti e atti osceni»). E allora del tutto irragionevole e in contrasto con la finalità educativa che la pena deve avere per i minorenni (evitare l’interruzione di processi educativi in atto) la previsione di limiti di pena – indicativi della gravità del fatto – che “agiscono preclusivamente” soltanto in fase esecutiva. L’impossibilità di neutralizzare la pericolosità sociale del condannato minorenne autore di gravi reati con una misura penale di comunità non può essere mai presunta (ciò che fa la predeterminazione per legge di una soglia di pena), ma va sempre consentito al giudice verificarla caso per caso, individuando le modalità esecutive più adeguate e compatibili con i suoi bisogni educativi.
E su questo punto, una seconda volta smentendo sé stessa, la Corte chiude il proprio ragionamento ribadendo che, per assicurare le «esigenze di individualizzazione del trattamento penitenziario minorile, derivanti dai princìpi costituzionali di protezione dell’infanzia e della gioventù (art. 31, secondo comma Cost.) e di finalizzazione rieducativa della pena (art. 27, terzo comma Cost.) [risulterebbero particolarmente appropriati] assetti più flessibili e attributivi di maggiori spazi per una valutazione giudiziale».
A cura di Lina Caraceni