La Consulta ha dichiarato non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 656, comma 9, lettera a), del codice di procedura penale, sollevate, in riferimento agli artt. 3, 13, 25, secondo comma, e 117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione all’art. 7 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), dalla Corte d’appello di Bologna con ordinanza del 16 dicembre 2019, iscritta al n. 9 del registro ordinanze 2021.
Il giudice a quo ha sottoposto alla Corte questione di legittima costituzionale in merito all’articolo succitato nella parte in cui questo, richiamando il secondo comma dell’art. 572 del codice penale, inserito dall’art. 9, comma 2, lettera b), della legge 19 luglio 2019, n. 69 (Modifiche al codice penale, al codice di procedura penale e altre disposizioni in materia di tutela delle vittime di violenza domestica e di genere), «prevede che il reato di maltrattamenti in famiglia commesso in presenza di minori è ostativo alla sospensione dell’ordine di esecuzione, senza prevedere un regime transitorio che dichiari applicabile tale norma solo ai fatti commessi successivamente» all’entrata in vigore della legge medesima. Infatti, il giudice a quo, “considerate la «natura afflittiva o intrinsecamente punitiva» e la «rilevanza sostanziale» della disposizione censurata, in quanto incidente sulla «portata della pena»”, riteneva che l’applicazione della stessa ai fatti commessi anteriormente all’entrata in vigore della legge n. 69 del 2019 violasse gli artt. 3, 13, 25, secondo comma, e 117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione all’art. 7 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), in quanto la disposizione censurata “lederebbe la garanzia costituzionale e convenzionale di irretroattività delle norme penali ad effetti sostanziali, quelle incidenti cioè sulla portata effettiva della pena”. La Corte d’appello di Bologna, infatti, riferisce alla Corte “di dover provvedere sull’istanza con la quale [un soggetto] ha chiesto sospendersi l’ordine di carcerazione emesso nei suoi confronti il 23 settembre 2019 in esecuzione di una sentenza passata in giudicato il 26 luglio 2019 recante condanna inflittagli per il reato aggravato di cui agli artt. 572 e 61, primo comma, numero 11-quinquies), cod. pen., avente ad oggetto maltrattamenti in danno della moglie commessi in presenza di minori «dal 2011 al mese di maggio 2017»”. Sul presupposto che “questo titolo di reato sia divenuto ostativo alla sospensione dell’ordine di esecuzione della pena detentiva solo con l’entrata in vigore della legge n. 69 del 2019, quindi solo il 9 agosto 2019, il giudice a quo reputa che un’applicazione retroattiva della modifica normativa, seppur conforme al diritto vivente ispirato al principio tempus regit actum in materia esecutiva, oltre a rimettere la maggiore o minore severità del trattamento sanzionatorio al dato casuale del diverso tempo di attivazione dell’organo esecutivo, sia lesiva della garanzia sostanziale di irretroattività delle norme penali”. Il giudice a quo, infatti, nell’ordinanza di remissione sottolinea come l’assenza di una disciplina transitoria abbia comportato l’emissione di un ordine di esecuzione per la carcerazione che, nel caso sopravvenisse una declaratoria di incostituzionalità, verrebbe immediatamente sospeso, permettendo al soggetto di proporre richiesta, in stato di libertà, di misure alternative alla detenzione, “effetto che il rimettente dichiara non conseguibile altrimenti, attesa la sussistenza di «un diritto vivente così granitico in tema di applicazione del principio tempus regit actum in materia esecutiva» da impedire ogni interpretazione adeguatrice della norma censurata.”
La Consulta riconosce che gli argomenti del giudice a quo non sono “incoerenti rispetto al quadro interpretativo consolidato al momento dell’ordinanza di rimessione, effettivamente dominato dal principio tempus regit actum in materia esecutiva, fermo che l’actus di riferimento temporale avrebbe dovuto individuarsi, per l’appunto, nell’ordine di carcerazione della cui sospensione trattasi, elemento essenziale della fattispecie complessa destinata a culminare nell’eventuale concessione delle misure alternative”. Dichiara, al contempo, però, le questioni non fondate nel merito in quanto, con la sentenza n. 32 del 2020 (qui allegata), la stessa Corte, “ritenendo necessaria «una complessiva rimeditazione della portata del divieto di retroattività sancito dall’art. 25, secondo comma, Cost., in relazione alla disciplina dell’esecuzione della pena», ha affermato che la regola di diritto vivente secondo cui le pene devono essere eseguite in base alla legge in vigore al momento dell’esecuzione, e non in base a quella in vigore al tempo della commissione del reato, soffre «un’eccezione allorché la normativa sopravvenuta non comporti mere modifiche delle modalità esecutive della pena prevista dalla legge al momento del reato, bensì una trasformazione della natura della pena, e della sua concreta incidenza sulla libertà personale del condannato»”. La sentenza richiamata, infatti, ha esteso anche al divieto di sospensione dell’ordine di esecuzione della pena detentiva di cui all’art. 656, comma 9, lettera a), cod. proc. pen., tale eccezione, poiché, “non essendo decisiva in senso contrario la collocazione della disposizione nel codice di rito”, riconosce come il divieto “«produc[a] l’effetto di determinare l’inizio dell’esecuzione della pena stessa in regime detentivo, in attesa della decisione da parte del tribunale di sorveglianza sull’eventuale istanza di ammissione a una misura alternativa; e dunque comporta che una parte almeno della pena sia effettivamente scontata in carcere, anziché con le modalità extramurarie che erano consentite – per l’intera durata della pena inflitta – sulla base della legge vigente al momento della commissione del fatto»”. La Corte richiama, inoltre, la sentenza n. 193 del 2020, con cui era stata chiamata a pronunciarsi su questioni analoghe a quelle dell’ordinanza in epigrafe e, già nella stessa, aveva dichiarato le questioni stesse non fondate «nei sensi di cui in motivazione». Infatti, nella stessa era ribadito dalla Corte come «nessun ostacolo si oppone più a che il giudice a quo adotti, rispetto a tali reati, l’unica interpretazione della disposizione censurata compatibile con il principio di legalità della pena di cui all’art. 25, secondo comma, Cost., così come declinato da questa Corte nella sentenza n. 32 del 2020».
Ciò appurato, “le questioni vanno dichiarate non fondate, poiché, contrariamente a quanto sostenuto dal giudice a quo, pur in conformità al diritto vivente al tempo dell’ordinanza di rimessione, l’art. 656, comma 9, lettera a), cod. proc. pen. può e deve essere oggi interpretato – in linea con la sopravvenuta sentenza di questa Corte n. 32 del 2020 – nel senso che il divieto di sospensione dell’ordine di esecuzione della pena detentiva nei confronti del condannato per il delitto di maltrattamenti aggravato dalla presenza di minori non si applica alla condanna per fatti commessi prima dell’entrata in vigore della legge” che ha reso tale titolo di reato ostativo alla sospensione (nell’ordinanza in epigrafe, della legge n. 69 del 2019).
Qui il testo della sentenza.
Giulia Podestà